Di Luca Poma – Giornalista – Professore di Scienze della Comunicazione – Portavoce nazionale della campagna di farmacovigilanza “Giù le Mani dai Bambini “
Si discute da anni dell’esistenza o meno dell’”epidemia” ADHD, ovvero del numero – cresciuto esponenzialmente negli anni – di bambini “iperattivi” degni di attenzione medica, trattati quasi sempre, specie in USA, ma non solo, con psicofarmaci la cui somministrazione precoce non è considerata eticamente e clinicamente opportuna da parte della comunità scientifica. Bambini certamente non solo “ vivaci”, bensì impulsivi, iper-agitati e cronicamente disattenti.
Autorevoli luminari e specialisti sono pronti a giurare circa l’esistenza di questa “malattia” dell’infanzia, e si stracciano le vesti se messi in discussione dagli “oscurantisti medioevali”, che poi sono tutti coloro che hanno un punto di vista differente dal loro. Altrettanto loro autorevoli colleghi storcono la bocca, e criticano severamente un approccio che finisce per banalizzare problematiche ben più complesse. Chi ha ragione? Ma – cosa ben più importante – cosa dovrebbe fare chi si trova al bivio, con un figlio forse malato di iperattività, o forse no? E soprattutto: come si dovrebbe regolare chi il problema l’ha già in casa? Perché è facile parlare, quando non si è toccati direttamente dal disagio.
In questo balletto di cifre, dati e pareri, è necessario fare un po’ di chiarezza: quello che è certo, è che non esiste alcuna prova dell’esistenza dell’Adhd, alcun marcatore biologico è mai stato individuato, e per tante ricerche scientifiche che tentano di dimostrare l’esistenza della sindrome, altrettante la smentiscono. Ciò non deve portarci ad abbracciare la scriteriata tesi opposta, ovvero che non esistono disagi dell’infanzia o problemi comportamentali degni di sollecita attenzione. Il problema è: qual è la causa? Ed ancora: che tipo di risposta noi adulti siamo disposti a dare a queste delicate problematiche? Per molti specialisti, l’Adhd è una “costellazione aspecifica di sintomi”, ovvero un insieme di campanelli d’allarme, che segnalano problemi ben più profondi. È chiaro a tutti a quali rischi esponga il persistere nel voler curare un sintomo trattandolo come una malattia a sé stante: si finisce per sedarlo, il sintomo, lasciando sotto di esso inalterata la malattia. Come confermato da una attenta e ricca ricerca bibliografica effettuata dal Dott. Claudio Ajmone, sono infatti oltre trecento le vere patologie o condizioni, spesso appunto trascurate, che generano iperattività: classificarle tutte quante sotto la generica voce “Adhd” è perlomeno ingenuo, ma molto di moda in questi ultimi anni.
Quel che è certo, e scientificamente provato, è che lo psicofarmaco non è mai di per se la soluzione definitiva, dal momento che si limita ad intervenire sui sintomi, raramente li risolve(1), non migliora il rendimento scolastico (2), senza considerare il problema degli effetti collaterali e iatrogeni, come dimostra la letteratura scientifica, che conferma “una possibile associazione tra metilfenidato e una serie di eventi avversi gravi e anche un elevato numero di eventi avversi non gravi in bambini e adolescenti”(3), puntualmente ignorata da chi, ignorante o in cattiva fede, nega l’esistenza di un problema di eccessiva medicalizzazione dei minori.
“L’Adhd com’è definita oggi è più che altro una moda, le diagnosi sono inconsistenti e vaghe, e per come vengono perfezionate non si possono e non si devono fare”,
dice Emilia Costa, già 1^ cattedra di Psichiatria dell’Università di Roma “La Sapienza”, incalzata dal Professore di Pediatria William Carey, uno dei massimi esperti di sviluppo comportamentale del bambini in USA, che afferma:
“I questionari che vengono utilizzati per diagnosticare questi disagi dell’infanzia sono altamente soggettivi ed impressionistici: nonostante il fatto che le scale di valutazione utilizzate non soddisfino i criteri psicometrici di base, i sostenitori di questo approccio pretendono che questi questionari forniscano una diagnosi accurata, ma così non è”.
Insomma, una storia che si spaccia per già scritta, mentre in realtà nella comunità scientifica la discussione è tutt’altro che chiusa. Ma mentre si discute, il marketing del farmaco si fa sempre più aggressivo, ed è forse questo il vero problema: l’infanzia rappresenta un nuovo e molto redditizio segmento di business per le multinazionali del farmaco, le quali finanziano circa l’80% della ricerca mondiale, e – se è vero che ci salvano la vita con molti prodotti utili – è altrettanto vero che tendono a non pubblicare mai le ricerche scientifiche con esito negativo, così da non nuocere al profilo commerciale dei propri brevetti.
Qualche ostinato incompetente carente di onestà intellettuale continua a negare l’evidenza, sostenendo che non vi è stato negli anni un incremento delle diagnosi e – guarda caso – della prescrizione e vendita di psicofarmaci per “curare” questo disagio, nonostante i dati dimostrino il contrario (4): le aziende dal canto loro sono più schiette, e parlano di “mercato globale”, come potete leggere dalla presentazione dell’inquietante rapporto pubblicato in calce a questo articolo (5).
In questo scenario molto poco rassicurante, l’imperativo può essere uno solo: la prudenza e l’applicazione del principio di precauzione. È necessario prestare la massima attenzione affinché la scuola non diventi l’anticamera dell’ASL, come sta succedendo sempre più spesso anche in Italia, dove assistiamo a una sempre più marcato tentativo di medicalizzazione del disagio. Riflettiamo piuttosto sul rapporto di noi adulti con i bambini: quasi sempre, per ogni bambino che lancia un allarme e manifesta il proprio disagio profondo, c’è un adulto che non vuole o non può ascoltarlo, e che trova maggiore serenità nella certezza di una diagnosi e nella soluzione “facile” di una pastiglia miracolosa, piuttosto che nel doversi mettere lui stesso in discussione, oppure c’è un sistema scolastico depotenziato nella sua capacità pedagogica e di gestione delle differenze, o ancora un ambiente attorno al bambino per qualche motivo ostile o inadeguato a valorizzarne le specifiche peculiarità.
Bibliografia: