Paolo Migone, Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Articolo per il portale GiùleManidaiBambini.org
L’articolo di Pigott et al. “Efficacy and Effectiveness of Antidepressants: Current Status of Research è solo l’ultimo di una serie di lavori che cercano di fare luce sulla reale efficacia dei farmaci antidepressivi.
L’articolo di Pigott et al. “Efficacy and Effectiveness of Antidepressants: Current Status of Research”, pubblicato su Psychotherapy and Psychosomatics (2010, 79, 5: 267-279), è solo l’ultimo di una serie di lavori che cercano di fare luce sulla reale efficacia dei farmaci antidepressivi, e precisamente smaschera alcuni publication bias (un errore, spesso voluto ma a volte anche non intenzionale, con cui si distorcono i dati scientifici quando vengono pubblicati, ndr), che hanno fatto sembrare la efficacia di questi farmaci molto maggiore di quella che è realmente. Tra i lavori precedenti a questo vanno ricordati quelli di Kirsch et al. (2002), Turner et al. (2008), Whittington et al. (2004), Rising, Bacchetti & Bero (2008), Barbui , Furukawa & Cipriani (2008), ecc. Kirsch et al. (2002) ad esempio avevano trovato che il miglioramento dovuto al placebo aveva una dimensione pari all’82%, e quindi che solo il 18% della risposta positiva era dovuta al farmaco. Inoltre, anche quando l’effetto positivo raggiungeva la significatività statistica, la superiorità del miglioramento dovuta al farmaco era piccola (meno di 2 punti della scala di Hamilton per la depressione), dunque l’effetto del farmaco era “clinicamente non significativo”. Per maggiori dettagli su questi studi, rimando a Migone, 2005, 2009, 2010.
Psychotherapy and Psychosomatics è una rivista prestigiosa, ed è diretta da un ricercatore italiano che insegna alla Università di Bologna, Giovanni Andrea Fava, che in passato ha prodotto lavori coraggiosi su questo argomento (sono noti ad esempio i suoi articoli in cui avanzava l’ipotesi che i farmaci antidepressivi e ansiolitici possano indurre una sorta di dipendenza e predisporre a un aumento di recidive e alla cronicità: Fava G.A., 1994, 1995, 2003; per un dibattito, vedi Walsh et al., 2002; Fava M. et al., 2003; Holbrook & Goldsmith, 2003; Portuges, 2003; Moncrieff & Kirsch, 2005).
Ma cosa si intende esattamente per publication bias? Uno dei maggiori di questi bias è quello di non pubblicare una ricerca se non ottiene i risultati sperati: le società farmaceutiche, che finanziano gli studi sui farmaci, in molti casi impongono ai ricercatori la non pubblicazione quando si dimostra che il placebo è uguale o superiore al farmaco sperimentato e che vogliono lanciare sul mercato. Kirsch et al. (2002) ad esempio scoprirono che più della metà (il 57%) degli studi finanziati dalle case farmaceutiche allo scopo di dimostrare l’efficacia degli antidepressivi SSRI (Selective Serotonin Reuptake Inhibitors) avevano dimostrato che gli SSRI erano uguali o inferiori al placebo, e gran parte di questi dati non furono mai pubblicati. Rising, Bacchetti & Bero (2008) hanno esaminato tutti gli studi approvati dalla FDA (Food and Drug Administration) americana dal 2001 al 2002 sulla efficacia di nuovi farmaci (farmaci di ogni tipo, non solo antidepressivi) e hanno dimostrato che uno studio che dimostra l’efficacia di un farmaco ha 5 volte più probabilità di essere pubblicato rispetto a uno studio che ne dimostra l’inefficacia. Hopewell et al. (2009), in uno studio simile pubblicato sulla prestigiosa Cochrane Library, hanno trovato un risultato molto simile, e cioè che le ricerche che dimostrano l’efficacia di un farmaco hanno 4 volte più probabilità di essere pubblicate di quelle che non la dimostrano. Turner et al. (2008), in una ricerca dello stesso tipo ma questa volta riguardante solo i farmaci antidepressivi, e pubblicata sul New England Journal of Medicine – che è forse la più prestigiosa rivista medica del mondo – hanno dimostrato che uno studio che dimostra l’efficacia di un antidepressivo ha ben 16 volte più probabilità di essere pubblicato rispetto a uno studio che ne dimostra l’inefficacia. Dato che, seguendo le indicazioni della “Medicina Basata sulle Evidenze” (Evidence Based Medicine), i clinici si basano solo sulle ricerche pubblicate per avere indicazioni su che farmaci prescrivere, è evidente l’enorme effetto di distorsione prodotto, le ricadute dannose sulla pratica clinica, le implicazioni economiche, ecc. Come hanno fatto notare Melander et al. (2003), qui non si tratta di Evidence Based Medicine, ma di Evidence B(i)ased Medicine.
Un altro importante bias evidenziato in vari studi è che non è vero che il “doppio cieco” (double blind) sia sempre “effettivo”. Senza il doppio cieco è ovvio che gli studi RCT (i Randomized Clinical Trials, che sono il “gold standard” della ricerca scientifica) non sono più RCT: in altre parole è indispensabile che entrambi – paziente e terapeuta – non sappiano se viene somministrato un farmaco oppure un placebo, altrimenti l’effetto placebo (che, come si è visto, è potentissimo) prende il sopravvento e risulta che il farmaco è efficace quando invece non lo è. Moncrieff, Wessely & Hardy (2004), ad esempio, in uno studio pubblicato sulla Cochrane Library, hanno voluto verificare quanto fosse effettivo il “doppio cieco” nelle ricerche sugli antidepressivi, poiché spesso i pazienti si accorgono che stanno assumendo il farmaco a causa degli effetti collaterali: esaminando gli studi (per un totale di 751 pazienti) che usavano un “placebo attivo” (cioè una sostanza inerte che mima gli effetti collaterali dell’antidepressivo ma non è un antidepressivo) emerse che la “dimensione del risultato” (effect size) dell’antidepressivo, che è già molto piccola, si riduce più della metà (da .39 a .17, per la precisione). Anche Greenberg et al. (1994) hanno trovato un’alta correlazione tra effetti collaterali e miglioramento, dimostrando che quando avviene il miglioramento ciò è dovuto all’unblinding, cioè al fatto che il doppio cieco, per così dire, “riacquista la vista”, col risultato che la suggestione diventa un potente fattore terapeutico per il paziente.
Può essere utile in questa sede accennare all’efficacia degli antidepressivi nei bambini. Whittington et al. (2004), in una ricerca di cui faceva parte anche Peter Fonagy, hanno voluto verificare l’efficacia degli antidepressivi nei bambini facendo una revisione sistematica delle ricerche pubblicate paragonate a quelle non pubblicate, arrivando alle stesse conclusioni di Kirsch et al. (2002). Questa ricerca, che uscì sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet, vinse anche il premio di miglior articolo dell’anno. Inoltre Abbass (2006) ha fatto notare che la maggioranza delle misurazioni usate nei sedici studi presi in esame in uno studio di Cheung, Emslie & Mayes (2006) sull’uso degli antidepressivi in bambini e adolescenti mostravano che il farmaco non era superiore al placebo. Dieci di questi sedici studi, tutti finanziati dalle case farmaceutiche, non sono stati pubblicati, e di questi solo uno mostrava una certa superiorità del farmaco rispetto al placebo. Dei sei studi pubblicati, solo quattro mostravano risultati positivi del farmaco. Questo studio dimostra che una ricerca che riporta risultati positivi del farmaco ha sei volte e mezzo più probabilità di essere pubblicata, per cui i medici dovrebbero essere molto prudenti nel trarre conclusioni dagli studi pubblicati. Per bambini e adolescenti, tra l’altro, sono stati fatti importanti studi sulle psicoterapie brevi, le quali sono sicure (non tossiche), cost-effective e preferite dai pazienti (Abbass & Gardner, 2004). Date le controversie sulla pericolosità degli antidepressivi nei bambini, andrebbero preferite le psicoterapie, che potrebbero essere un trattamento di prima scelta e alternativo ai farmaci, dato che sono efficaci e diminuiscono maggiormente le ricadute (Ryan, 2005).
Ma cosa aggiunge questo recente studio di Pigott et al. (2010) rispetto a quello che si sapeva già? Esamina quattro meta-analisi su studi di efficacia degli antidepressivi approvati dall’FDA, e aggiunge importanti nuove informazioni. Oltre a corroborare i dati emersi dai precedenti studi (conclude infatti che «gli antidepressivi sono solo marginalmente efficaci se paragonati a placebo», p. 267), mette in luce vari altri bias, tra i quali il seguente: spesso i ricercatori, quando non raggiungono i risultati desiderati dalle case farmaceutiche (che avevano finanziato lo studio), cambiano il tipo di test che avevano specificato in anticipo per misurare l’efficacia del farmaco, e in sede di pubblicazione riportano soltanto i dati di un test secondario o addirittura di un nuovo test che non era previsto prima. Com’è noto, la specificazione anticipata dei test che verranno utilizzati è essenziale per garantire la integrità di una ricerca, e permette di scoprire se i ricercatori scelgono di pubblicare solo i dati dei test preferiti dalle case farmaceutiche che hanno sponsorizzano lo studio, un tipo di bias questo che è conosciuto come HARKing (termine che deriva dall’acronimo HARK [Hypothesizing After the Results are Known”] declinato come verbo, cioè “fare delle ipotesi dopo che si conoscono già i risultati”; Kerr, 1998). Un modo di procedere quindi che è l’esatto contrario della ricerca scientifica…
Tanti altri dati emergono da questo studio di Pigott et al. (2010), ad esempio sono state fatte indagini di efficienza e non solo i efficacia (in altre parole, sono stati esaminati non solo i risultati emersi da studi in “laboratorio”, cioè di efficacia, ma anche di studi che esaminano la pratica cinica reale nel territorio, cioè di efficienza), mettendo in luce nuovamente, come negli studi precedenti, alti tassi di ricadute (pazienti che una volta interrotta la terapia farmacologica ripiombano nella patologia, ndr), e così via.
Riusciranno questi studi a modificare l’opinione dei clinici, e a motivarli ad esempio a suggerire ai loro pazienti depressi anche la psicoterapia, la quale si è dimostrata nettamente superiore ai farmaci? Non penso che sia così facile. Come disse una volta Silvio Garattini, noto per le sue battaglie progressiste e di sensibilizzazione nel campo delle prescrizioni farmacologiche, tre forze si coalizzano affinché un certo stato di cose continui: la formazione che ricevono gli studenti all’università, l’informazione dell’industria farmaceutica, e la pressione di molti pazienti che sono alla ricerca di soluzioni facili e rapide anche se illusorie. Le evidenze scientifiche che indicano che la psicoterapia, soprattutto se psicodinamica, è molto utile sono schiaccianti: come elemento di paragone, si pensi che l’effect size in generale delle terapie psicodinamiche varia da .69 a 1.46, mentre l’effect size dei farmaci antidepressivi è estremamente più basso, varia da .17 a .31, cioè 4 volte più basso (Shedler, 2010, p. 19).
Un fatto curioso, questo, se si pensa che da anni i mass-media ci bombardano con articoli sull’importanza dei farmaci per la depressione, sui miracoli della “pillola della felicità” e cose di questo genere.
(1- nota della redazione): la rivista trimestrale Psicoterapia e Scienze Umane è stata fondata nel 1967 da Pier Francesco Galli nell’ambito del progetto formativo e culturale del Gruppo Milanese per lo viluppo della Psicoterapia – Centro Studi di Psicologia Clinica di Milano che, a livello editoriale, era già caratterizzato da due iniziative: la collana Feltrinelli “ Biblioteca di Psichiatria e di Psicologia Clinica” (fondata nel 1960, con 87 titoli pubblicati), e la collana Boringhieri “ Programma di Psicologia Psichiatria Psicoterapia” (fondata nel 1964, con circa 250 titoli a tutt’oggi pubblicati). La rivista Psicoterapia e Scienze Umane prosegue in continuità storica e formale le attività iniziate nel 1960. E’ attualmente la rivista del settore più diffusa in Italia. E’ possibile abbonarsi anche on-line seguendo i link pubblicati alla pagina http://www.psicoterapiaescienzeumane.it (ai nuovi abbonati vengono inviati tre numeri arretrati omaggio).
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