Di Enrica Roddolo – Fonte: IlCorriere.it
«Malati? Forse, ma immaginari. Perché molti di quei bambini che oggi vengono etichettati — alla lettera — come Dsa (affetti da disturbi specifici di apprendimento) o da sindrome da iperattività, una volta sarebbero semplicemente stati definiti “birichini” o “monelli”». E ancora: «È come negli anni Sessanta quando ci fu la stagione delle tonsille e quella dei piedi piatti. Risultato: tutti o quasi noi bambini di quell’epoca siamo stati operati di tonsille e messi sotto la lente per i “sospetti” piedi piatti. Adesso c’è invece la mania da neuropsichiatria». Daniele Novara, pedagogista tra i più noti in Italia che nel 1989 ha fondato il Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti (e dal 2004 insegna al Master in Formazione interculturale dell’Università Cattolica di Milano) non ha paura di gettare il sasso nello stagno.
E, parlando con il Corriere, aggiunge: «Viviamo in Italia una stagione di eccesso di diagnostica neuropsichiatrica. O, in altre parole, stiamo bollando le nuove generazioni con mille sigle indicative di altrettanti malesseri neuropsichiatrici che, nella maggior parte dei casi, di neuropsichiatrico hanno poco o nulla. Con tutto il danno, negli anni a seguire, che possiamo immaginare per questi bambini che si porteranno sulle spalle nel loro percorso scolastico l’etichetta di bambini malati. Si ma, immaginari».
Il guaio è che anziché guardare ai talenti dei piccoli, la società italiana di oggi tende a mettere sotto lente i «problemi»: è quello che Novara chiama il paradosso del bicchiere mezzo vuoto. «Utilizziamo strumenti di screening a tappeto per scovare l’immaturità». E a conferma delle sue argomentazioni, nel suo nuovo libro («Non è colpa dei bambini. Perché la scuola sta rinunciando a educare i nostri figli e come dobbiamo rimediare. Subito», Bur Rizzoli Parenting) porta i numeri. E dice: «A fronte dell’esplosione italiana di casi di difficoltà dell’apprendimento, secondo l’International Academy for Research in learning Disabilities, solo il 2,5% della popolazione scolastica mondiale dovrebbe incontrare problemi nella cognizione numerica, e solo lo 0,5% sarebbe soggetto a disturbo dell’apprendimento geneticamente determinato. Mentre i dati sulle segnalazioni in Italia parlano di circa un 20-30% di bambini. Più o meno cinque per classe».
Perché, professor Novara? O, se preferisce, di chi è la colpa? «Perché da un lato non si tollera più nelle scuole e neanche nelle famiglie, l’immaturità dei bambini: ma è normale, altrimenti non sarebbero bambini ma adulti! Ai miei tempi i bambini facevano i bambini, e gli adulti gli adulti: giocavamo tantissimo. Ieri ho ricevuto in studio i genitori di una bimba, con ottimo profitto a scuola, solo un po’ troppo vivace. Per lei non c’è assolutamente bisogno del neuropsichiatra, semmai di un buon pedagogista. Il guaio semmai è che in Italia i pedagoghi non esistono più…». In che senso? «Semplice, perché da noi la pedagogia non ha mai avuto molto successo, come dimostra anche la scarsa simpatia, rispetto allo straordinario successo nel mondo, per Maria Montessori. Perché alla pedagogia è sempre stata associata a una certa retorica di ieri, con il risultato che nel 1991 sono state chiuse le facoltà per sostituirle con quelle di Scienza dell’educazione: così ci si laurea come formatori senza sostenere un solo esame di pedagogia».
Bambini malati «immaginari» dunque. Con in più un pregiudizio al maschile che nel libro Novara titola come «Il record dei maschi certificati». «Su alcune patologie l’80% delle diagnosi riguarda dei maschi — spiega —. Su tre diagnosi, due sono di maschi con un rapporto doppio dunque rispetto alle femmine». Come è possibile? O, se preferisce, come lo spiega? «Me lo sono domandato anch’io e ho iniziato a scandagliare le ricerche internazionali. Finché mi sono ricordato di uno studio che avevo fatto sulla femminilizzazione del personale educativo: il nostro numero di personale maschile in cattedra è il più basso d’Europa. Da ciò credo possa derivare in parte questa percezione distorta dei maschi… C’è poca comprensione per la maggior vivacità dei maschi fra i banchi».
Nel libro c’è anche il caso della bambina «troppo perfetta»: «Un pediatra mi invia una famiglia con una bambina di 5 anni e mezzo che allo screening a tappeto realizzato dalla scuola dell’infanzia appare “troppo perfetta”. Insomma risulta “troppo a posto, troppo giudiziosa”. Ha iniziato a scrivere il suo nome a 4 anni, è riflessiva…tutto a posto. Ma lo screening è implacabile, qualcosa deve pur venire fuori!». Nessuna speranza, allora? «Certo che sono fiducioso perché intanto la figura materna in Italia è la migliore d’Europa: perché è affettuosa, molto materna rispetto alla figura della madre in molti Paesi del NordEuropa. Certo poi quando i bambini diventano adolescenti la mamma italiana è invece spesso incapace di gestire la crescita, di lasciare che i figli esplorino la vita e le situazioni».