*Steve Balt è uno psichiatria, autore di post sul blog Thought Broadcast.
Ero riluttante all’idea di scrivere un articolo sull’ADHD. Sembra un terreno infido sul quale avventurarsi: a giudicare dai commenti che ho letto online e sulle riviste, oltre che dalla mia personale esperienza, esprimere un’opinione su questa diagnosi, o qualsiasi altro parere sulla psichiatria infantile, provoca critiche da entrambi i fronti. Ma dopo aver letto l’articolo di L. Alan Sroufe (“Ritalin impazzito”) apparso sul New York Times, mi sono sentito obbligato a scrivere.
Se non avete letto l’articolo, vi consiglio di farlo. Personalmente concordo con ogni singola parola (a parte il punto in cui commenta come “i bambini nati in situazioni di povertà sono quindi più vulnerabili verso problemi comportamentali”; mi preme ricordare al Dott. Sroufe che una correlazione non equivale a un rapporto di causa-effetto). Ma vorrei averlo scritto io. Sfortunatamente sembra che solo gli psichiatri in pensione o persone esterne al settore possano scrivere di questa professione. Il resto di noi forse dovrà cercarsi un nuovo lavoro prima o poi.
Come previsto, l’articolo ha attratto numerosi detrattori online. Per farvi un’idea, leggete questa replica dal blog “Motherlode” del NYT in cui il Dott. Sroufe viene condannato per aver “incolpato i genitori” per l’ADHD. Ho letto più volte l’articolo originale: il Dott. Sroufe non ha fatto niente del genere. Ha invece osservato come i sintomi di ADHD possano non derivare interamente (o non del tutto) da difetti neurologici innati (o “squilibrio chimico”), e che le influenze ambientali possono invece essere più importanti. Ha inoltre ribadito che i farmaci per l’ADHD funzionano: i bambini (e non dimentichiamo gli adulti) stanno meglio, ma questi successi scemano con il passare del tempo, probabilmente perché la soluzione farmacologica “non fa niente per cambiare le condizioni ambientali preesistenti”.
Non potrei essere più d’accordo. Ad essere sinceri, credo che questa frase valga per molti aspetti che trattiamo nella psichiatria, ma è particolarmente importante quando si tratta di bambini e adolescenti. I bambini sono esposti a un numero enorme di influenze diverse mentre cercano di trovare la propria strada in questo mondo, per non parlare del fatto che il loro cervello e il loro corpo continua a svilupparsi rapidamente e ad essere ampiamente vulnerabile. “Le influenze ambientali” sono pressoché illimitate.
Ho una proposta radicale che probabilmente non verrà mai e poi mai realizzata, ma che potrebbe risolvere i problemi emersi dall’articolo del NYT. Continuate a leggere.
Innanzitutto, avrete notato che prima ho parlato di “sintomi di ADHD” e non di “ADHD”. Non è un errore. Si tratta invece di una distinzione fondamentale. Come per qualunque altra patologia psichiatrica la diagnosi di ADHD si basa sulla documentazione di sintomi. I sintomi simili a quelli dell’ADHD sono molto comuni tra le popolazioni minorili. (Per i criteri di diagnosi ADHD ufficiali del DSM-IV cliccate qui). Una diagnosi di ADHD richiede certamente che questi sintomi siano “maladattivi e incoerenti con il livello di sviluppo”. Ciononostante, ho scherzato spesso con i miei colleghi sostenendo che potrei diagnosticare l’ADHD in praticamente qualunque bambino se gli facessi le domande giuste nel modo giusto. Ma non si tratta del tutto di uno scherzo. Provate voi stessi. Osservate i criteri e poi immaginate di avere un bambino nel vostro ufficio e i suoi genitori che si lamentano del suo cattivo rendimento scolastico, o del fatto che è sempre coinvolto in zuffe, o che si rifiuta di fare i compiti, fantastica molto, etc. Se avete in mente i criteri ADHD, e ricordate che dovete pensare come uno psichiatra, sarete probabilmente propensi a porre delle domande tendenziose, e vi garantisco che avrete delle risposte positive.
Ovviamente si tratta di un pessimo metodo per eseguire una diagnosi, ma è questo ciò che accade ogni giorno negli studi di psichiatri e pediatri. Esistono modi più “validi” di diagnosticare l’ADHD: scale di valutazione come i questionari di Connors o Vanderbilt, la valutazione neuropsicologica estesa, o (se possibile) costosi esami di imaging. Ad ogni modo, nella prassi, spesso tralasciamo i punteggi al di sotto della soglia di questi questionari, prescrivendo comunque farmaci ADHD (l’ho visto fare molte volte), la valutazione neuropsicologica è fatta all’acqua di rose (punteggi di disturbo di elaborazione uditiva al 60esimo percentile, ecc), e infine, come giustamente sottolinea il Dott. Sroufe, è probabile che bambini carenti di motivazione o con “una capacità sottosviluppata di regolare il proprio comportamento” mostrino immagini del cervello “anomale”. Tutto questo però non indica necessariamente che soffrano di un disturbo.
Qual è pertanto la mia proposta? Propongo di disfarci del tutto della diagnosi di ADHD. Ora, prima che passiate a crocifiggermi o ad accusarmi di non essere in grado di svolgere l’attività medica, (come ha fatto un lettore, anche autore di un libro sull’ADHD, quando lanciai questa idea sul blog di David Allen la settimana scorsa), lasciatemi spiegare.
Prima di tutto, se eliminassimo la diagnosi di ADHD, potremmo ancora fare ciò che abbiamo sempre fatto. Potremmo ancora valutare bambini con problemi di attenzione, concentrazione o iperattività, e potremmo ancora usare farmaci stimolanti (ovviamente sarebbero off-label) per alleviare la situazione, a patto che abbiamo ottenuto lo stesso consenso informato come è sempre stato. Si fa così da sempre in medicina. Se un paziente lamenta un dolore costante all’alluce e alla caviglia, non gli diagnostichiamo immediatamente la gotta; piuttosto, dovremmo procedere con un esame fisico mirato dell’area e raccomandare un ciclo di FANS. Se il dolore ritorna o non migliora, o se compaiono nuovi sintomi associati alla gotta, potremmo controllare i livelli di acido urico, eseguire un’analisi del fluido sinoviale o prescrivere allopurinolo.
La medicina in fondo è questa: vediamo sintomi che suggeriscono una diagnosi e forniamo un rimedio che possa aiutare ad alleviare questi sintomi e intanto prestiamo attenzione al corso naturale della malattia, raffiniamo la diagnosi nel tempo e modifichiamo continuamente la terapia per curare la diagnosi latente e/o eliminare i fattori di rischio. L’obiettivo finale è ovviamente minimizzare il ricorso a interventi pericolosi o costosi ottenendo un livello significativo di guarigione.
Questo invece è esattamente ciò che non facciamo nella maggior parte di casi di ADHD. O perlomeno nella maggior parte della psichiatria. Esistono certamente delle eccezioni, ma spesso con la diagnosi di ADHD, e la relativa prescrizione di un farmaco che, in molti casi, funziona incredibilmente bene, la storia finisce lì. Il bambino ottiene una diagnosi, assume un farmaco, va meglio a scuola e si comporta meglio con gli amici, i genitori sono soddisfatti e tutti sono felici. Ma cos’è che ha causato i sintomi all’inizio? Si può (o si dovrebbe) individuarli? Quando si può (o si dovrebbe) interrompere il trattamento? Come prevenire conseguenze a lungo termine dei farmaci?
Se, dall’altra parte, non eseguiamo una diagnosi di ADHD ma piuttosto documentiamo che il bambino vive dei “problemi di concentrazione” o “disattenzione” o “iperattività” (cioè descriviamo i sintomi specifici), siamo giustificati a continuare a cercare le cause di questi sintomi. Per alcuni bambini la causa potrebbe essere un ambiente casalingo caotico; per altri, una storia di maltrattamenti o abuso di sostanze. Per altri ancora, potrebbe dipendere dallo stile genitoriale o da un’interazione non ideale per il carattere sociale e biologico di quel determinato bambino (ho esitato a scrivere “scarsa genitorialità” altrimenti potrei ricevere veramente lettere minatorie!). Per altri ancora, infine, potrebbe essere un’anomalia biologica, forse una corteccia dorsolaterale prefrontale cerebrale più piccola (ah…la DLPFC!) oppure un ritardo nella maturazione del cervello.
L’ADHD rappresenta un’unica piattaforma sulla quale provare questo approccio aperto, non-DSM. Liberarsi della diagnosi di “ADHD” porterebbe numerosi vantaggi: ci incoraggerebbe a cercare più approfonditamente la radice delle cause, ci permetterebbe di somministrare un trattamento in maniera più eclettica, eviterebbe a pazienti, genitori, dottori, insegnanti e altri di usare l’ADHD come etichetta o come “scusa” per il comportamento di qualcuno e ci costringerebbe a fornire una cura veramente personalizzata. Ci saranno certamente quelli che vogliono semplicemente gli psicostimolanti “perché funzionano” per i loro sintomi di disattenzione o distrazione (e quelli che simulano deliberatamente i sintomi di ADHD perché vogliono abusare di sostanze stimolanti o perché vogliono entrare ad Harvard), ma, signori, queste cose succedono già adesso! La mia proposta creerebbe un eccesso di “falsi negativi” nelle diagnosi di ADHD, ma ridurrebbe anche i precedenti “falsi positivi” che, secondo me, sono più pericolosi per il nostro già debole campo nosologico.
Una tale strategia potrebbe, e probabilmente dovrebbe, essere estesa anche ad altre condizioni psichiatriche. Ritengo che una parte di ciò che definiamo “ADHD” sia realmente un disturbo, probabilmente una molteplicità di disordini come commentavo prima; lo stesso può dirsi probabilmente della “depressione”, del ”disordine bipolare” e qualsiasi altra cosa. Quando però queste definizioni iniziano a essere utilizzate indiscriminatamente (e sfortunatamente il DSM-5 non offre alcun miglioramento in tal senso), la diagnosi si traduce nel semplice affibbiare un’etichetta, costringendoci a un approccio che, nella migliore delle ipotesi, non ci fa cogliere l’importanza del caso e nella peggiore, causare danni considerevoli. Forse bisognerebbe ripensare l’intero processo.