Di: Dr. Massimo Lai – per www.medicitalia.it
Recentemente Thomas Insel, direttore dell’NIMH (National Institut of Mental Health) statunitense, ha criticato la nuova edizione del DSM, la classificazione delle malattie mentali degli psichiatri americani, definito “la bibbia della psichiatria”, costringendo David Kupfer, direttore del comitato di revisione del DSM-5, a rispondere ufficialmente alle critiche 1,2.
La notizia è uscita su diverse testate importanti che hanno commentato e spinto ad analisi varie 3,4,5.
Ancora più feroci le critiche dello psichiatra Allen Frances che aveva guidato la revisione della IV edizione del manuale 6. Queste ulteriori critiche giungono poco prima della presentazione ufficiale del DSM in occasione del Congresso annuale degli psichiatri americani 7.
“Ma come si è potuti arrivare a questo punto?” mi chiede un collega francese…
Cerco di rispondergli ricostruendo la storia del DSM e della diagnosi in psichiatria.
Mentre la comunità medica si interroga sulle malattie del cervello e discute della loro definizione e classificazione, la gente parla di sogni, emozioni, torti subiti e traumi. Stanotte ho sognato di cadere… Ieri il mio datore di lavoro è stato scortese, spero non voglia licenziarmi… Da piccolo mi hanno sgridato… A scuola mi prendevano in giro… L’anno scorso è morta mia madre… Tutti problemi naturali legati alla condizione umana: è veramente necessario parlarne allo psichiatra?
La ricerca di una causa al malessere esistenziale ha da sempre condizionato il concetto di malattia mentale e l’accettazione che potesse esistere una condizione di malattia dell’anima. Esistono le emozioni, i pensieri, i comportamenti, ma essi non possono essere preda di malattia, solo la vita può avere un esito favorevole o sfavorevole e condizionare il nostro stato d’animo.
Chi pensa in questi termini non accetta che la mente possa essere malata e tenderà a negare la malattia mentale attribuendo all’esterno la temporanea causa del malessere. Per altri si tratterà invece di condizioni comunque umane non definibili come malattia. È quello che pensano molti psicologi (e una parte degli psichiatri) e quanti accusano gli psichiatri americani di voler medicalizzare la normale sofferenza umana 8,9,10.
E se fosse il contrario? Cioè che la nostra forma mentis condizioni anche lo svolgimento degli eventi e la nostra interpetazione degli stessi?
E se esistessero sia condizioni di malattia che determinano eventi avversi che eventi avversi che fanno ammalare?
Comunque se pensate che la malattia mentale non esista non è necessario proseguire nella lettura di questo testo e potete lasciare il blog.
Se invece pensate che il cervello sia un organo che può ammalarsi e che la vita mentale, affettiva, relazionale e il pensiero con i comportamenti associati, possano ammalarsi, ammetterete che le malattie che ne derivano per essere curate vadano studiate e quindi anche classificate in base alle attuali conoscenze scientifiche.
Nel caso delle malattie mentali, come per tante altre affezioni mediche, in assenza di conoscenze biologiche sufficienti a definire la malattia secondo termini anatomo- e fisio-patologici, si ricorre ancora alla pura conoscenza clinica, cioè l’osservazione dei fenomeni e la loro definizione e classificazione.
La difficoltà nella conoscenza del funzionamento normale (leggi: fisiologico) del cervello umano, cioè la conoscenza della normalità, rende più difficile e controverso definire cosa sia anormale. Si pensi ad esempio al lutto. È uno degli eventi umani tra i più comuni e condiviso in tutte le parti del globo e non soltanto tra gli esseri umani. Culturalmente l’uomo ha creato dei riti (le varie cerimonie funerarie e il culto dei morti) per superare questo trauma. Il fatto che sia un’esperienza universale, inevitabile, dolorosa, e accettata da tutte le società, ne determina il carattere di evento naturale che non va considerato patologico. Questo è uno dei temi che divide la comunità degli psichiatri: il lutto è una malattia? Una delle critiche di Allen Frances è che con il DSM-5 vi sarà un aumento delle diagnosi di depressione a 2 settimane dal decesso di una persona cara, medicalizzando, stigmatizzando e curando inutilmente una condizione naturale. Cambiamo un attimo prospettiva. Nella mia pratica clinica ospedaliera ho a che fare con persone colpite dal lutto che arrivano alla mia attenzione dopo mesi o anni dall’evento o dopo un tentativo di suicidio. Il suicidio a causa di un lutto è normale? Stare male per anni dopo un lutto è normale? Si tratta di malattia? Lasciamo gli esperti e i non esperti discuterne…
Stabilito che esistano dei comportamenti anormali (che escono al di fuori di una norma), questi si possono classificare secondo elementi discreti (le categorie) o in maniera fluida (le dimensioni). Già Platone e Aristotele si erano posti il problema dell’esistenza di malattie con una separazione netta tra normale e patologico (Platone) o con confini più sfumati (Aristotele). Al giorno d’oggi prevale la classificazione per categorie con limiti netti tra normalità e patologia. Questo è un’altra fonte di critiche: la dicotomia normale-patologico non si presterebbe bene alla condizione umana quindi alla sofferenza mentale. Pertanto la diagnosi categoriale non va bene perché sarebbe un tentativo di medicalizzare comportamenti normali.
In realtà le cose non sono così semplici e la comunità psichiatrica discute da decenni di categorie e dimensioni e le diagnosi così come le statistiche sono abbastanza elastiche e malleabili in barba a tutti i DSM del mondo. Si tratta quindi di un’argomentazione fallace.
Esistono due classificazioni conosciute dalla comunità scientifica internazionale.
La prima è quella dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS – WHO) che si chiama ICD-10 (International Classification of Diseases) giunto alla decima edizione e che si occupa di classificare in codici tutte le malattie esistenti, compreso un capitolo dedicato alle malattie mentali.
La seconda classificazione è quella dell’APA (American Psychiatric Association) che dal 1952 pubblica il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders).
Mentre sul DSM piovono critiche feroci dalla comunità di medici e psicologi ma anche da estranei alla professione, dell’ICD si parla poco e niente. Fatto strano considerando che a grandi linee i due sistemi diagnostici confluiscono con dei criteri simili per quasi tutte le malattie elencate. D’altronde i codici sono gli stessi e anche negli Stati Uniti ufficialmente si utilizzano i crideri dell’ICD-10 cui il DSM ha fatto corrispondere i codici anche se non per tutte le malattie, in quanto le revisioni dei due manuali non sono sempre simultanee: quella del DSM cambia più velocemente.
Non si tratta dei Dipartimenti di Salute Mentale di Italiana memoria, ma del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali dell’American Psychiatric Association (APA) giunto ormai alla 5 edizione 11,12.
La funzione del DSM come dell’ICD è semplice e ben nota a tutti gli addetti ai lavori: definire le malattie e classificarle per curarle. Dare un codice a una condizione morbosa significa fare in modo che possa essere rintracciabile da chi fa statistica come l’Istat, da chi rimborsa le spese di degenza o altre spese legate alla malattia; permette di vedersi riconosciuti giorni di malattia e anche invalidità, cosa impossibile se non si definisse cosa è malattia. In Italia ad esempio esistono i DRG 13 che si rifanno al sistema di classificazione dell’OMS (WHO), l’ICD.
Serve soprattutto ai clinici per orientarsi nelle diagnosi: infatti entrambi i manuali offrono dei criteri operativi per individuare i quadri clinici esistenti e in base a questa classificazione impostare poi una terapia adeguata.
Ma serve anche ai ricercatori per effettuare delle ricerche mirate a quadri clinici ben definiti. Anzi in origine il DSM era nato da criteri di ricerca per scopi di ricerca e solo secondariamente ha avuto un grande successo di pubblico e si è diffuso nella classe medica specialistica e non specialistica. Qui arriva la principale critica che ci riguarda più da vicino da parte di Thomas Insel direttore del NIMH statunitense che ha creato un sistema classificativo parallelo che utilizza dei criteri diversi e usato per lo più per la ricerca.
Nonostante questo, il DSM è stato sviluppato anche per un uso clinico e per questa ragione a partire dal DSM-III del 1980 era stato impostato in modo volutamente ateorico per cercare di essere il più possibile obiettivo. Si trattava insomma di criteri operativi descrittivi che avrebbero permesso ai clinici di qualunque parte del globo (o almeno degli Stati Uniti) di effettuare diagnosi coerenti. La reliability (riproducibilità della diagnosi) infatti era il principale problema sentito all’epoca.
Uno studio molto famoso degli anni ’60 tra psichiatri americani e britannici aveva infatti meso in luce le difficoltà diagnostiche esistenti nella comunità psichiatrica internazionale con diagnosi simili solamente in un minima percentuale di casi 14,15,16,17. Ai partecipanti allo studio erano state mostrate delle interviste registrate ed essi dovevano fare diagnosi in base al quadro clinico presentato dai soggetti in analisi. Il risultato fu disastroso anche se in minima parte coerente all’interno dei due differenti gruppi (più diagnosi di schizofrenia nel gruppo americano contro diagnosi di disturbo affettivo nel gruppo europeo).
L’esigenza di criteri diagnostici condivisi divenne un punto importante nell’agenda delle commissioni preposte alla ricerca di criteri diagnostici.
La svolta venne con il DSM-III del 1980 che si staccava completamente dai precedenti manuali diagnostici e i cui criteri operativi si avvicinavano a quelli della classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS). Nonostante la dichiarazione di manuale ateorico, in realtà vi furano molti compromessi come l’introduzione dei disturbi di personalità in asse II che rifletteva il punto di vista della comunità psicoanalitica che aveva ancora un peso importante nel mondo accademico americano (e internazionale).
Con l’uscita del DSM-IV gli psichiatri si resero ben presto conto che nonostante un migliramento nella replicabilità della diagnosi e un omogeneizzazione delle diagnosi, la validity era ancora ben lontana dall’essere trovata.
Questo è il maggior problema con cui si è confrontato il DSM-5. Infatti agli inizi del 2000 quando si formò la commissione si parlò di “paradigm shift” con grande entusiasmo pensando che ormai la conoscenza delle malattie era avanzata abbastanza da permettere delle diagnosi con dei criteri più vicini alla scienza come avviene per altre branche della medicina. Ma ben presto gli estensori del nuovo manuale si resero conto che gli avanzamenti della ricerca non erano ad un punto tale da permettere di poter rivoluzionare l’approccio diagnostico, tantomeno il concetto di malattia non era cambiato e si ricorreva ancora ai vecchi criteri operativi descrittivi.
La teoria del complotto non manca in psichiatria e ad ogni mossa del mondo accademico si attribuisce un interesse delle case farmaceutiche. Anche Allen Frances fa queste accuse di influenze delle case farmaceutiche e non mancano anche i siti che hanno istituito petizioni contro il DSM-5 e inviti da più parti a non seguire tale manuale.
La notizia della critica del direttore del NIMH con l’istituzione di nuovi criteri di ricerca (i Research Domain Criteria Project – RDoC) ha riacceso le critiche alimentandole. La notizia potrebbe essere una bomba dal momento che il NIMH si occupa di una gran parte degli studi condotti dalle istituzioni statunitensi e in cui transitano grandi quantità di denaro da cui dipendono i finanziamenti degli studi stessi.
I detrattori di questa classificazione hanno colto al balzo la notizia come una dimostrazione dell’infondatezza scientifica del noto manuale e continuare a sparare sopra la psichiatria. Si riattivano infatti le voci contro la psichiatria in genere e la nozione di malattia mentale mai accettata da alcuni.
La realtà sembrerebbe diversa. Come riportato sulle pagine di Scientific American nel blog scientifico Brainwaves, “No One Is Abandoning the DSM, but It Is Almost Time to Transform It” 18. Quello che emerge è un grande equivoco: nessuno sta abbandonando il DSM anche se tutti pensano che vada superato. La comunità scientifica internazionale è consapevole dei problemi che sono sorti con le precedenti revisioni del Manuale con un aumento delle diagnosi di alcuni disturbi, l’abbassamento della soglia di alcune malattie con il rischio di cure anche quando non è strettamente necessario. Il problema è che questi manuali vanno utilizzati per quello che sono, degli sturmenti per classificare e attribuire dei codici, ma non è con essi che si studia la psicopatologia e si fa clinica tutti i giorni. Forse è questo che devono imparare i nostri colleghi statunitensi, dovrebbero ricominciare dalla psicopatologia e non semplificare con troppa faciloneria l’approccio clinico a delle malattie molto complesse. Allo stesso tempo l’aumento di diagnosi significa una maggiore attenzione della comunità di psichiatri verso certe malattie che sono ancora poco conosciute come l’ADHD nell’adulto, altro aspetto delicato e criticato da molti anche se non trascurabile. È probabile che un aumento del numero di diagnosi di ADHD nell’adulto ridimensioni altri gruppi di diagnosi come i disturbi dell’umore e d’ansia. È esperienza comune degli psichiatri ritrovarsi in ambulatorio soggetti adulti in genere molto attivi che arrivano all’attenzione dopo un matrimonio distrutto, la perdita del lavoro, e difficoltà di attenzione che indagate attentamente risalgono all’infanzia. Queste persone diagnosticate come depresse, ansiose o bipolari potrebbero rientrare in altre categorie diagnostiche aprendo la via a terapie più mirate e una cura più adeguata. È possibile che l’interesse crescente verso questi aspetti migliori le nostre conoscenze e porti a nuovi sviluppi sia clinici che terapeutici.
In conclusione come scrivono Craddock e Owen, la psichiatria sta vivendo un momento di transizione che durerà il tempo che permetterà di saperne di più sulla genetica del cervello per passare dagli attuali criteri descrittivi a dei criteri clinici 19.
1) http://www.nimh.nih.gov/about/director/2013/transforming-diagnosis.shtml
2) http://alert.psychiatricnews.org/2013/05/david-kupfer-md-responds-to-criticism.html
3) http://www.nytimes.com/2013/05/07/health/psychiatrys-new-guide-falls-short-experts-say.html?_r=1&
6) http://www.huffingtonpost.com/allen-frances/dsm-5-where-do-we-go-from_b_3281313.html
7) http://www.psych.org/annualmeeting
9) Anais Ginori e Massimo Recalcati: Il nuovo DSM e la commercializzazione dei disturbi mentali. La Repubblica, 8 maggio 2013.
10) http://www.humantrainer.com/attualita/dsm-v-passo-stampa-aumentano-polemiche.html
11) http://www.psychiatry.org/practice/dsm
12) https://en.wikipedia.org/wiki/Diagnostic_and_Statistical_Manual_of_Mental_Disorders
13) https://it.wikipedia.org/wiki/Diagnosis-related_group
14) Kramer M. Cross-national study of diagnosis of the mental disorders: origin of the problem. Am J Psychiatry, 1969; 10 suppl: 1-11.
15) Cooper JE, Kendell RE, Gurland BJ, Sartorius N, Farkas T. Cross-national study of diagnosis of the mental disorders: some results from the first comparative investigation. Am J Psychiatry, 1969; 10 suppl: 21-9.
16) Kendell RE, Cooper JE, Gourlay AJ, Copeland JR, Sharpe L, Gurland BJ. Diagnostic criteria of American and British psychiatrists. Arch Gen Psyhciatry, 1971; 25 (2): 123-30.
17) Kendel RE. Psychiatric diagnosis in Britain and the United States. Br J Psychiatry, 1975; Spec No 9: 453-61.
19) Craddock N, Owen MJ. Kraepelinian dichotomy – going going… but still not gone. Br J Psychiatry, 2010; 196 (2): 92-5. – http://bjp.rcpsych.org/content/196/2/92.full.pdf+html