Fonte: Sanihelp.it
Ha fatto molto discutere lo studio pubblicato sul British Medical Journal da un gruppo di ricercatori del Karolinska Institute di Stoccolma, nel quale si sostiene che la somministrazione di psicofarmaci a bambini e adolescenti con ADHD (iperattività e deficit di attenzione) non solo non induce potenzialmente al suicidio come fino a oggi sostenuto da molti specialisti nonché dalla Food and Drug Administration USA, ma potrebbe al contrario ridurre o limitare le ideazioni suicidarie dei piccoli in cura.
Uno studio che contiene molte falle, secondo i ricercatori dell’Istituto superiore di sanità. Le modalità di progettazione dello studio sarebbero discutibili: uno studio longitudinale, invece che un più solido studio prospettico con un lungo follow-up.
Inoltre, lo studio svedese avrebbe tratto le sue conclusioni basandosi su dati estratti dal Registro nazionale ADHD svedese, dati registrati solo per scopi statistici e amministrativi e non per scopi clinici.
Gli svedesi avrebbero poi escluso 120 malati che sono morti o hanno abbandonato il territorio svedese, rendendo quindi le conclusioni inattendibili. Gli psicofarmaci paragonati nella ricerca svedese sono molto differenti l’uno dall’altro nel loro meccanismo di azione e di questa differenza non si tiene minimamente conto. Inoltre nessun rilievo è stato dato a informazioni su utilizzo di altre sostanza psicoattive o stupefacenti precedentemente alla presa in carico per la cura dell’ADHD.
I ricercatori italiani evidenziano come lo studio fornisca a medici e specialisti uno spaccato parziale e frammentario: per esempio, uno dei macrogruppi analizzati include minorenni e maggiorenni, ovvero indistintamente la popolazione tra i 10 e i 24 anni di età, che presenza invece differenze enormi dal punto di vista emotivo e cognitivo.
La replica dei ricercatori italiani, anch’essa pubblicata sul BMJ, si conclude così: «Quando analizziamo l’associazione tra psicofarmaci e suicidi, abbiamo bisogno di revisioni sistematiche progettate sulla base di studi clinici in grado di affrontare i molteplici fattori sociali e familiari responsabili dell’iperattività infantile. Informazioni di questo tipo potrebbero incoraggiare un trattamento multimodale e ridurre la terapia farmacologica».
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