Fonte: La Repubblica
Dossier a cura di Angelo Aquaro e Michele Bocci
Antidepressivi, psicofarmaci, stimolanti. Settanta milioni di americani ogni giorno assumono un farmaco. E anche l’Italia scopre di essere “malata”
Emily ha 28 anni e non sa più bene chi è. Emily arriva dal Midwest, ha una lavoro da impiegata che la rende felice, una relazione più che serena e tanti, tantissimi amici. Eppure, ogni sera, prima di andare a dormire, mentre si strucca davanti allo specchio, Emily sente quel piccolo brivido correrle ancora lungo la schiena. La colpa, lei lo sa bene, è proprio di uno dei suo amici: il più fidato, quello di più lunga data, l’unico che non l’ha mai tradita, quello che inseparabile la segue da quando aveva 14 anni. Un amico dal nome un po’ buffo ma dalla potenza micidiale. Prozac. Acid-ò, acid-à / acid-ò, acid-à… Ricordate? Era l’estate di 15 anni fa e il tormentone di quella band dal nome che era tutto un programma, proprio Prozac+, prese in ostaggio l’Italia. Beh, 15 anni sono quasi una generazione e mica è un caso che dall’altra parte del mondo, all’alba dell’anno 2012, il paese più impasticcato del pianeta, cioè gli Stati Uniti d’America, stia cominciando a fare i conti con la pillolina che ci ha cambiato la vita. Non è solo questione di Prozac, Tavor, Xanax e — per i più grandicelli — perfino Viagra. No, non è solo questione di pilloline più o meno potenti e più o meno colorate. Il fatto è che il boom delle pasticche che fanno sparire la paura, la malattia e la depressione rischia di fare sparire anche quella che i filosofi, prima ancora che gli psicologi e gli psichiatri, chiamano da millenni “coscienza di sé”. Soprattutto nella generazione di chi, come Emily, è nata e cresciuta a pane & pillole. Qui in America l’hanno già battezzata la Medication Generation. E i numeri non lasciano nessun dubbio. Il National Center for Health Statistics dice che il 5 per cento degli americani dai 12 ai 19 anni usano antidepressivi. Aggiungeteci il 6 per cento della stessa fascia d’età che usa invece farmaci contro il cosiddetto Adhd, il disordine da deficit d’attenzione e iperattività. Mettete che un altro 6 per cento di adulti tra i 18 e i 39 anni prende antidepressivi. E così ci ritroviamo, per la prima volta, davanti a una generazione che non solo si impasticca dall’età dell’asilo: non sa neppure che cosa vuol dire vivere senza pillola.
«Gli adulti che prendono i farmaci sostengono che la pillola aiuta a tornare a essere quello che erano prima che la depressione oscurasse la loro personalità», scrive sul Wall Street Journal Katherine Sharp. «Ma per gli adolescenti dalla personalità ancora in formazione il quadro è molto più complesso ». Per chi da sempre convive con la pillola, insomma, «l’assenza di una concezione di sé, precedente al trattamento medico, impedisce di misurare gli effetti della pillola sullo sviluppo della personalità». Messa così sembra un incubo da fantascienza. E non è un caso che da Aldous Huxley a Philip Dick la pillola regna incontrastata in tanti racconti. Nel “Mondo Nuovo” proprio le pasticche della fantomatica “Soma” aiutano a ingoiare le vite tutte uguali imposte dal tecnocratico regime. «Tutti i vantaggi della Cristianità e dell’alcol: e nessuno dei difetti». Così Hux- ley introduce la pillolina magica che oggi in tanti intravedono come la profetica progenitrice del Prozac, del Paxil o dello Zoloft che ogni giorno settanta milioni di americani mandano giù. Ma Katherine Sharp non è una scrittrice di fantascienza. Il suo “ Coming of Age on Zoloft”, l’adolescenza allo Zoloft appunto, è una denuncia in prima persona dei rischi di crescere con gli psicofarmaci. E l’allarme che ha lanciato dal giornale di Wall Street è un campanello per tutti noi. Che fare quindi? Benedetto Vitiello, uno dei più grandi esperti in materia, responsabile della ricerca sull’infanzia al National Institue of Mental Health, riconosce che il problema è prima di tutto culturale. «Ricordo quando per la prima volta sono sbarcato qui trent’anni fa», dice a Repubblica. «Ero ospite in casa di un collega, a Philadelphia. Scendo per fare colazione e la moglie, gentilissima, aveva già apparecchiato per tutti. E accanto a ogni bicchiere, insieme al latte e al succo di frutta, ecco lì la bella pillolina. “E questa? ”, ho chiesto preoccupato. “Ma è la vitamina quotidiana”, mi ha risposto lei tranquilla». Naturalmente — o meglio sarebbe dire artificialmente — su quella strada trent’anni dopo si è avventurato mezzo mondo. Italia e isole comprese. Certo: gli americani ci danno sempre una pista. Il New York Times ha lanciato l’ennesimo allarme per i ragazzini. Sempre loro, quelli della medication generation, si fanno prescrivere gli stimolanti — fingendo si soffrire di Adhd, il deficit d’attenzione — per affrontare meglio i periodi di stress scolastico e presentarsi con più grinta agli esami. Dalla pillola per risolvere un problema alla pillola che già tra i giovanissimi si trasforma dunque nell’aiutino proibito. Doping. Droga. Ce ne sarebbe abbastanza per gridare allo scandalo. Ma una giornalista d’inchiesta, Kaitlin Bell Barnett, ha scritto un altro libro per invitare a non generalizzare. “ Dosed”, cioè appunto “dosati”, ha un sottotitolo ancora più esplicito, “Così cresce la Medication Generation”, e racconta le storie di cinque ex adolescenti che, come lei, sono cresciuti a pane, pillole e depressione. «Ci sono passata anch’io», racconta ora. «Ma ho voluto indagare meglio proprio perché, leggendo su giornali e blog certe storie, ho scoperto che gli approcci non sempre sono stati positivi come il mio». La parola chiave è “differenza”: «Non tutti rispondiamo allo stesso modo ai farmaci. E le storie personali e i contesti familiari possono fare davvero la differenza». Ok, ma non sarà che dietro il proliferare delle pillole si nasconda la longa manus dell’industria farmaceutica? In fondo la medication generation è cresciuta di pari passo con il via libera dei cosiddetti “spot al consumatore”. È solo dal 1996 che negli Usa è permessa la pubblicità dei farmaci per il fai-da-te dei disturbi mentali, sognanti caroselli dove basta una pillola per sentirti subito meglio: e chi vuoi che poi — malgrado la voce fuori campo — legga attentamente le avvertenze? Del resto, che la generazione-pillola sia una pacchia per Big Pharma non è mica un segreto: gli esperti lamentano, per esempio, la mancanza di studi specializzati sui rischi, che come si sa richiedono fior di finanziamenti. «Una certa teoria biologica dice che il cervello in via di sviluppo dei bambini potrebbe “sintentizzarsi” proprio per colpa dell’abuso dei farmaci», aggiunge Vitiello. «Ma dati certi non ne abbiamo. Certo è solo che il farmaco non dovrebbe mai essere il primo rimedio. E andrebbe assunto dietro intervento medico. E con l’attenta partecipazione dei genito- ri». Ma tutto lascia pensare che la medication generation si lascerà accompagnare dalle medicine per tutta la vita. «Già oggi», ricorda l’esperto «una persona di 65-70 anni prende in media 5-10 farmaci al giorno. E mica solo per curarsi. Per prevenzione: per non ammalarsi. La pasticca per il controllo del colesterolo, la pasticca per la pressione, la pasticca per il controllo del diabete, la pasticca per il controllo della tiroide, per incrementare la memoria… ». Figuriamoci che cosa succederà adesso che l’impasticcamento comincia da bambini. O no? Kaitlin, la giornalista di “ Dosed”, vede un po’ meno nero: «Non solo non ci sono prove che chi assume i farmaci da piccolo sia più esposto all’abuso dei farmaci da grande. Al contrario, ci sono studi che dimostrano come i giovani che si impasticcano già da piccoli da grandi tendono poi a rapportarsi in una maniera più corretta con i farmaci: più informata ». Non tutta la medication generation, insomma, vive i tormenti di Emily, che 14 anni dopo resta ostaggio delle sue pasticche: la pillola che ci rende tutti uguali devono ancora inventarla.
Il boom italiano degli antidepressivi uno su due li usa
Una crescita che non conosce soste. Ogni anno gli italiani consumano più antidepressivi di quello precedente. Paroxetina, escitalopram e sertralina sono i principi attivi più diffusi. Con le altre molecole della stessa famiglia finiscono negli armadietti del bagno di un numero enorme di persone. Più di un italiano su due in dodici mesi compra una confezione di questi medicinali: nel 2011 le farmacie ne hanno vendute 34 milioni e mezzo e le dosi assunte in media ogni giorno sono più che raddoppiate rispetto al 2001. Parliamo di prodotti prescritti da un medico, e pagati dal sistema sanitario. Ma se si prendono in considerazione anche i medicinali di questo tipo venduti su ricetta “bianca” i numeri crescono ancora, diventano una valanga contando anche un’altra categoria di farmaci per problemi psichiatrici, gli ansiolitici come le benzodiazepine. Questi non vengono passati dal servizio sanitario e sono in assoluto i prodotti più venduti in farmacia tra quelli comprati a proprie spese dai cittadini. Dalle tasche degli italiani nel 2011 sono usciti 550 milioni di euro per acquistarli. Nel 2001, in media, 15 persone ogni mille prendevano un antidepressivo al giorno. Il dato l’anno scorso è salito a oltre 36. Undici anni fa le confezioni acquistate erano 21 milioni e 400 mila, l’anno scorso appunto 34 milioni e mezzo. La spesa per il sistema sanitario, che rimborsa questi medicinali, non è invece aumentata ma addirittura scesa. L’effetto è dovuto al fatto che per alcune molecole in questi anni è scaduto il brevetto e sono entrati in commercio i generici, che hanno abbassato sensibilmente i prezzi. In Italia ancora non si assiste ancora al fenomeno degli Usa, dove molti adolescenti vengono trattati con gli antidepressivi. Il profilo del paziente standard nel nostro Paese è quello di una donna con più di 65 anni. «Abbiamo la fortuna-sfortuna di seguire gli Usa con 10 o a volte 20 anni di ritardo in molte cose. Quello che succede da loro però, prima o poi arriva anche qua». A fare questa previsione è Giovanni Battista Cassano, uno dei padri della psichiatria italiana che oggi dirige una clinica a San Rossore. «In America hanno di certo più depressione giovanile che da noi, per vari aspetti dello stile di vita di quel Paese. L’aumento di diagnosi si porta dietro anche un abuso e quindi i loro numeri salgono ancora di più». Cassano non è impressionato dal dato italiano sulla crescita dell’utilizzo degli antidepressivi. «L’Italia è al di sotto degli altri paesi occidentali, per il consumo. Le Regioni che usano di più questi medicinali hanno tassi di ricovero più bassi, un’assistenza che funziona meglio, meno ore di lavoro perduto da parte dei malati. Non ci dimentichiamo che abbiamo tanti morti per depressione. Qualcuno pensa che chi inizia a prendere gli antidepressivi poi non smette più. Non è vero. Abbiamo tanti pazienti che fanno un ciclo di cura e poi non hanno più problemi. Oppure che hanno ricadute a distanza nel tempo. Mi ricordo di Montanelli: ogni 10 anni aveva una depressione, che lo spingeva a fare i farmaci per un periodo limitato».
La vede in modo diverso Gustavo Pietropolli Charmet, psicologo dell’adolescenza. «Mi fa piacere che in Italia si usino molti meno antidepressivi sui giovani rispetto agli Usa. Il farmaco non può essere la prima istanza di cura. Quasi tutti gli adolescenti hanno un fondo malinconico, un po’ triste, annoiato, con sentimenti di solitudine, inadeguatezza. Considerare queste situazioni come problemi che si risolvono con gli antidepressivi è un errore diagnostico. La depressione va curata con i farmaci se è una questione organica. Se uno è depresso perché va male a scuola, perché la fidanzata l’ha mollato o ha brufoli può fare scelte gravi come il suicidio, o l’abuso dell’alcol. Ma non per questo va curato con i farmaci ».
Fonte: La Repubblica
Dossier a cura di Angelo Aquaro e Michele Bocci
Antidepressivi, psicofarmaci, stimolanti. Settanta milioni di americani ogni giorno assumono un farmaco. E anche l’Italia scopre di essere “malata”
Emily ha 28 anni e non sa più bene chi è. Emily arriva dal Midwest, ha una lavoro da impiegata che la rende felice, una relazione più che serena e tanti, tantissimi amici. Eppure, ogni sera, prima di andare a dormire, mentre si strucca davanti allo specchio, Emily sente quel piccolo brivido correrle ancora lungo la schiena. La colpa, lei lo sa bene, è proprio di uno dei suo amici: il più fidato, quello di più lunga data, l’unico che non l’ha mai tradita, quello che inseparabile la segue da quando aveva 14 anni. Un amico dal nome un po’ buffo ma dalla potenza micidiale. Prozac. Acid-ò, acid-à / acid-ò, acid-à… Ricordate? Era l’estate di 15 anni fa e il tormentone di quella band dal nome che era tutto un programma, proprio Prozac+, prese in ostaggio l’Italia. Beh, 15 anni sono quasi una generazione e mica è un caso che dall’altra parte del mondo, all’alba dell’anno 2012, il paese più impasticcato del pianeta, cioè gli Stati Uniti d’America, stia cominciando a fare i conti con la pillolina che ci ha cambiato la vita. Non è solo questione di Prozac, Tavor, Xanax e — per i più grandicelli — perfino Viagra. No, non è solo questione di pilloline più o meno potenti e più o meno colorate. Il fatto è che il boom delle pasticche che fanno sparire la paura, la malattia e la depressione rischia di fare sparire anche quella che i filosofi, prima ancora che gli psicologi e gli psichiatri, chiamano da millenni “coscienza di sé”. Soprattutto nella generazione di chi, come Emily, è nata e cresciuta a pane & pillole. Qui in America l’hanno già battezzata la Medication Generation. E i numeri non lasciano nessun dubbio. Il National Center for Health Statistics dice che il 5 per cento degli americani dai 12 ai 19 anni usano antidepressivi. Aggiungeteci il 6 per cento della stessa fascia d’età che usa invece farmaci contro il cosiddetto Adhd, il disordine da deficit d’attenzione e iperattività. Mettete che un altro 6 per cento di adulti tra i 18 e i 39 anni prende antidepressivi. E così ci ritroviamo, per la prima volta, davanti a una generazione che non solo si impasticca dall’età dell’asilo: non sa neppure che cosa vuol dire vivere senza pillola.
«Gli adulti che prendono i farmaci sostengono che la pillola aiuta a tornare a essere quello che erano prima che la depressione oscurasse la loro personalità», scrive sul Wall Street Journal Katherine Sharp. «Ma per gli adolescenti dalla personalità ancora in formazione il quadro è molto più complesso ». Per chi da sempre convive con la pillola, insomma, «l’assenza di una concezione di sé, precedente al trattamento medico, impedisce di misurare gli effetti della pillola sullo sviluppo della personalità». Messa così sembra un incubo da fantascienza. E non è un caso che da Aldous Huxley a Philip Dick la pillola regna incontrastata in tanti racconti. Nel “Mondo Nuovo” proprio le pasticche della fantomatica “Soma” aiutano a ingoiare le vite tutte uguali imposte dal tecnocratico regime. «Tutti i vantaggi della Cristianità e dell’alcol: e nessuno dei difetti». Così Hux- ley introduce la pillolina magica che oggi in tanti intravedono come la profetica progenitrice del Prozac, del Paxil o dello Zoloft che ogni giorno settanta milioni di americani mandano giù. Ma Katherine Sharp non è una scrittrice di fantascienza. Il suo “ Coming of Age on Zoloft”, l’adolescenza allo Zoloft appunto, è una denuncia in prima persona dei rischi di crescere con gli psicofarmaci. E l’allarme che ha lanciato dal giornale di Wall Street è un campanello per tutti noi. Che fare quindi? Benedetto Vitiello, uno dei più grandi esperti in materia, responsabile della ricerca sull’infanzia al National Institue of Mental Health, riconosce che il problema è prima di tutto culturale. «Ricordo quando per la prima volta sono sbarcato qui trent’anni fa», dice a Repubblica. «Ero ospite in casa di un collega, a Philadelphia. Scendo per fare colazione e la moglie, gentilissima, aveva già apparecchiato per tutti. E accanto a ogni bicchiere, insieme al latte e al succo di frutta, ecco lì la bella pillolina. “E questa? ”, ho chiesto preoccupato. “Ma è la vitamina quotidiana”, mi ha risposto lei tranquilla». Naturalmente — o meglio sarebbe dire artificialmente — su quella strada trent’anni dopo si è avventurato mezzo mondo. Italia e isole comprese. Certo: gli americani ci danno sempre una pista. Il New York Times ha lanciato l’ennesimo allarme per i ragazzini. Sempre loro, quelli della medication generation, si fanno prescrivere gli stimolanti — fingendo si soffrire di Adhd, il deficit d’attenzione — per affrontare meglio i periodi di stress scolastico e presentarsi con più grinta agli esami. Dalla pillola per risolvere un problema alla pillola che già tra i giovanissimi si trasforma dunque nell’aiutino proibito. Doping. Droga. Ce ne sarebbe abbastanza per gridare allo scandalo. Ma una giornalista d’inchiesta, Kaitlin Bell Barnett, ha scritto un altro libro per invitare a non generalizzare. “ Dosed”, cioè appunto “dosati”, ha un sottotitolo ancora più esplicito, “Così cresce la Medication Generation”, e racconta le storie di cinque ex adolescenti che, come lei, sono cresciuti a pane, pillole e depressione. «Ci sono passata anch’io», racconta ora. «Ma ho voluto indagare meglio proprio perché, leggendo su giornali e blog certe storie, ho scoperto che gli approcci non sempre sono stati positivi come il mio». La parola chiave è “differenza”: «Non tutti rispondiamo allo stesso modo ai farmaci. E le storie personali e i contesti familiari possono fare davvero la differenza». Ok, ma non sarà che dietro il proliferare delle pillole si nasconda la longa manus dell’industria farmaceutica? In fondo la medication generation è cresciuta di pari passo con il via libera dei cosiddetti “spot al consumatore”. È solo dal 1996 che negli Usa è permessa la pubblicità dei farmaci per il fai-da-te dei disturbi mentali, sognanti caroselli dove basta una pillola per sentirti subito meglio: e chi vuoi che poi — malgrado la voce fuori campo — legga attentamente le avvertenze? Del resto, che la generazione-pillola sia una pacchia per Big Pharma non è mica un segreto: gli esperti lamentano, per esempio, la mancanza di studi specializzati sui rischi, che come si sa richiedono fior di finanziamenti. «Una certa teoria biologica dice che il cervello in via di sviluppo dei bambini potrebbe “sintentizzarsi” proprio per colpa dell’abuso dei farmaci», aggiunge Vitiello. «Ma dati certi non ne abbiamo. Certo è solo che il farmaco non dovrebbe mai essere il primo rimedio. E andrebbe assunto dietro intervento medico. E con l’attenta partecipazione dei genito- ri». Ma tutto lascia pensare che la medication generation si lascerà accompagnare dalle medicine per tutta la vita. «Già oggi», ricorda l’esperto «una persona di 65-70 anni prende in media 5-10 farmaci al giorno. E mica solo per curarsi. Per prevenzione: per non ammalarsi. La pasticca per il controllo del colesterolo, la pasticca per la pressione, la pasticca per il controllo del diabete, la pasticca per il controllo della tiroide, per incrementare la memoria… ». Figuriamoci che cosa succederà adesso che l’impasticcamento comincia da bambini. O no? Kaitlin, la giornalista di “ Dosed”, vede un po’ meno nero: «Non solo non ci sono prove che chi assume i farmaci da piccolo sia più esposto all’abuso dei farmaci da grande. Al contrario, ci sono studi che dimostrano come i giovani che si impasticcano già da piccoli da grandi tendono poi a rapportarsi in una maniera più corretta con i farmaci: più informata ». Non tutta la medication generation, insomma, vive i tormenti di Emily, che 14 anni dopo resta ostaggio delle sue pasticche: la pillola che ci rende tutti uguali devono ancora inventarla.
Il boom italiano degli antidepressivi: uno su due li usa
Una crescita che non conosce soste. Ogni anno gli italiani consumano più antidepressivi di quello precedente. Paroxetina, escitalopram e sertralina sono i principi attivi più diffusi. Con le altre molecole della stessa famiglia finiscono negli armadietti del bagno di un numero enorme di persone. Più di un italiano su due in dodici mesi compra una confezione di questi medicinali: nel 2011 le farmacie ne hanno vendute 34 milioni e mezzo e le dosi assunte in media ogni giorno sono più che raddoppiate rispetto al 2001. Parliamo di prodotti prescritti da un medico, e pagati dal sistema sanitario. Ma se si prendono in considerazione anche i medicinali di questo tipo venduti su ricetta “bianca” i numeri crescono ancora, diventano una valanga contando anche un’altra categoria di farmaci per problemi psichiatrici, gli ansiolitici come le benzodiazepine. Questi non vengono passati dal servizio sanitario e sono in assoluto i prodotti più venduti in farmacia tra quelli comprati a proprie spese dai cittadini. Dalle tasche degli italiani nel 2011 sono usciti 550 milioni di euro per acquistarli. Nel 2001, in media, 15 persone ogni mille prendevano un antidepressivo al giorno. Il dato l’anno scorso è salito a oltre 36. Undici anni fa le confezioni acquistate erano 21 milioni e 400 mila, l’anno scorso appunto 34 milioni e mezzo. La spesa per il sistema sanitario, che rimborsa questi medicinali, non è invece aumentata ma addirittura scesa. L’effetto è dovuto al fatto che per alcune molecole in questi anni è scaduto il brevetto e sono entrati in commercio i generici, che hanno abbassato sensibilmente i prezzi. In Italia ancora non si assiste ancora al fenomeno degli Usa, dove molti adolescenti vengono trattati con gli antidepressivi. Il profilo del paziente standard nel nostro Paese è quello di una donna con più di 65 anni. «Abbiamo la fortuna-sfortuna di seguire gli Usa con 10 o a volte 20 anni di ritardo in molte cose. Quello che succede da loro però, prima o poi arriva anche qua». A fare questa previsione è Giovanni Battista Cassano, uno dei padri della psichiatria italiana che oggi dirige una clinica a San Rossore. «In America hanno di certo più depressione giovanile che da noi, per vari aspetti dello stile di vita di quel Paese. L’aumento di diagnosi si porta dietro anche un abuso e quindi i loro numeri salgono ancora di più». Cassano non è impressionato dal dato italiano sulla crescita dell’utilizzo degli antidepressivi. «L’Italia è al di sotto degli altri paesi occidentali, per il consumo. Le Regioni che usano di più questi medicinali hanno tassi di ricovero più bassi, un’assistenza che funziona meglio, meno ore di lavoro perduto da parte dei malati. Non ci dimentichiamo che abbiamo tanti morti per depressione. Qualcuno pensa che chi inizia a prendere gli antidepressivi poi non smette più. Non è vero. Abbiamo tanti pazienti che fanno un ciclo di cura e poi non hanno più problemi. Oppure che hanno ricadute a distanza nel tempo. Mi ricordo di Montanelli: ogni 10 anni aveva una depressione, che lo spingeva a fare i farmaci per un periodo limitato».
La vede in modo diverso Gustavo Pietropolli Charmet, psicologo dell’adolescenza. «Mi fa piacere che in Italia si usino molti meno antidepressivi sui giovani rispetto agli Usa. Il farmaco non può essere la prima istanza di cura. Quasi tutti gli adolescenti hanno un fondo malinconico, un po’ triste, annoiato, con sentimenti di solitudine, inadeguatezza. Considerare queste situazioni come problemi che si risolvono con gli antidepressivi è un errore diagnostico. La depressione va curata con i farmaci se è una questione organica. Se uno è depresso perché va male a scuola, perché la fidanzata l’ha mollato o ha brufoli può fare scelte gravi come il suicidio, o l’abuso dell’alcol. Ma non per questo va curato con i farmaci ».