Il boom di Adhd tra i nostri bambini? Troppo spesso quella diagnosi rivela in realtà i problemi degli adulti. Parola di psicologa

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Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività, una preoccupante “epidemia” che dice molto delle difficoltà a educare di genitori e insegnanti. Lettera di Eleonora Mazza, psicologa dell’età evolutiva

Fonte: www.tempi.it

Attualmente durante gli incontri con i genitori e gli educatori della scuola dell’infanzia o gli insegnanti della scuola primaria sento frequentemente usare la parola “iperattività”. Credo personalmente che spesso si abusi di tale definizione o se ne faccia un uso improprio. Basta infatti che un bambino fatichi a stare seduto per lungo tempo, si muova con vivacità nel suo ambiente o tenda a infrangere le regole presenti nel contesto in cui si trova che viene subito etichettato come “bambino iperattivo”. Ma che significato ha tale “diagnosi”?

È bene sottolineare che i bambini con disturbo da deficit di attenzione e iperattività hanno dei sintomi definiti in termini di quantità e qualità e non vanno confusi con bambini ipereccitabili, irrequieti o semplicemente vivaci.

Secondo il Dsm-V (diagnostic and statistic manual of mental disorders) non basta che ci siano alcuni dei sintomi in esso elencati (minimo 6 su 9) ma ci deve essere anche una compromissione significativa nell’area del funzionamento scolastico, familiare e relazionale per poter porre la diagnosi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività.

Se si leggono i sintomi elencati nel sistema diagnostico sopra citato si può facilmente comprendere che quasi tutti i bambini hanno presentato nel corso dell’infanzia almeno un paio di queste manifestazioni comportamentali senza essere però bambini con Adhd.

In Italia, come prevedono le linee guida per la diagnosi dell’Adhd, essa può essere formulata soltanto da un neuropsichiatra infantile o da uno psicologo che abbia molta esperienza nell’ambito di tale disturbo e di disturbi ad esso correlati; esistono perciò dei centri regionali di riferimento dove vengono effettuate la diagnosi e la cura, e un registro nazionale per l’Adhd utile per monitorare l’incidenza del disturbo sulla popolazione e la somministrazione delle terapie farmacologiche. Ciò serve anche a evitare abusi farmacologici e diagnosi errate.

Capita troppo spesso però che alcuni bambini ricevano tale “diagnosi” impropriamente dai loro genitori che li vedono irrequieti, distraibili e disubbidienti o dagli insegnanti perché disturbano a scuola, non chiedono il permesso di parlare o di alzarsi e rendono faticoso il normale andamento della vita scolastica.

Esistono bambini che presentano sintomi simili a quelli dell’Adhd che manifestano, attraverso il loro comportamento dirompente e la loro distraibilità, malesseri e disagi che non trovano la loro comprensione in una etichetta diagnostica. Sono quei bambini considerati “difficili” dai genitori e dagli insegnati che vivono in contesti familiari complessi o che stanno affrontando situazioni come la separazione dei genitori, lutti importanti o traumi.

Non tutti i bambini manifestano i loro disagi e le loro sofferenze allo stesso modo, alcuni si chiudono in se stessi e spesso passano inosservati a casa, ma soprattutto a scuola perché non disturbano e non si mettono nei guai; altri invece diventano ipereccitabili, irrequieti, provocatori e distratti. Questi ultimi balzano maggiormente all’occhio di chi sta loro intorno perché spesso disturbano o si mettono in situazioni di pericolo.

Ritengo quindi che i bambini con Adhd “pura”, quelli cioè che non hanno subito traumi, lutti, o che non vivano in situazioni relazionali molto complesse, costituiscano una popolazione esigua.

Per questo, al di là dell’importanza di studiare e riconoscere un disturbo che può essere diagnosticato e curato come tale, penso sia importante non fermarsi ai semplici sintomi del bambino, ma sapere che essi possono essere una modalità di espressione del proprio stato d’animo e che gli adulti, in quanto educatori, siano essi genitori o insegnanti hanno il dovere di saper cogliere e leggere nel modo corretto.

Per questo non è sufficiente organizzare corsi di formazione per insegnanti, al fine di conoscere i criteri diagnostici dei disturbi dell’età evolutiva, fra cui quelli del deficit di attenzione e iperattività, ma occorre insegnare loro a cogliere il disagio o anche semplicemente il voler comunicare, da parte dei bambini, che qualcosa non va senza necessariamente ricorrere a una diagnosi. Ritengo anche che attualmente gli insegnanti si trovino sempre più in difficoltà nella gestione di classi numerose con bambini che manifestano bisogni “normali” o “speciali”, perché si trovano spesso soli e impossibilitati a fare di più. La presenza di bambini a cui viene riconosciuta l’Adhd o altre diagnosi paradossalmente “facilitano” il loro compito là dove è previsto l’aiuto educativo o il sostegno didattico.

Negli ultimi anni anche i genitori appaiono sempre più in difficoltà nella gestione dei figli, e quando questi manifestano dei problemi sembra sia più facile inquadrare tutto in una diagnosi piuttosto che andare alla ricerca dell’origine del loro malessere. Infatti, nonostante le azioni dei genitori siano sempre volte al benessere dei figli, si osserva a volte una certa quota di insicurezza nelle scelte educative che può portare a delegare l’educazione dei loro bambini e la comprensione dei loro malesseri a dei professionisti, come gli insegnanti o gli psicologi.

Spesso il mio compito di psicologa consiste proprio nell’aiutarli a ritrovare fiducia in se stessi al fine di riappropriarsi dell’autorevolezza necessaria per l’educazione dei figli e ad avere uno sguardo più attento volto a riconoscere le proprie fragilità e quelle dei loro bambini.

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