Prospettive assistenziali, n. 17, gennaio-marzo 1972
DOCUMENTI
GIULIO A. MACCACARO
(1) Intervento presentato alla IV riunione della Società Italiana di Neuropsicofarmacologia (Bologna, 23-24 ottobre 1971).
Ripubblicato su: www.fondazionepromozionesociale.it
Se a questo mio intervento seguirà una discussione, mi auguro che nessuno riterrà necessario ricordarmi che ci sono psicofarmaci capaci di dare beneficio a certi malati e malati che trovano sollievo nell’assunzione di certi psicofarmaci.
Il problema che intendo proporre è un altro: il passaggio dalla sperimentazione psicofarmacologica come caso particolare del più generale uso medico dell’uomo – già analizzato altrove come momento di violenza classista – all’uso dello psicofarmaco come modello generale di quella gestione repressiva della società capitalista che nella medicina ha soltanto uno strumento particolare.
Non mi sfuggono né la gravità di questa enunciazione né il dovere di giustificarla, né la difficoltà di adempiere a tale dovere nel breve tempo a mia disposizione.
Per questo, consegno alla Presidenza fotocopia di un lavoro intitolato «Sperimentazione terapeutica dellapropericiazina in bambini di 3-6 anni» a firma di G. Battista Cavazzuti, Filadelfo Amore e Maurizio Giacalone, pubblicato da pag. 288 a pag. 302 del volume 98 della rivista «Neuropsichiatria infantile» del 1969.
È possibile e mi auguro che gli autori siano presenti in quest’aula perché il lavoro è stato compiuto a Modena, come collaborazione dell’Ufficio Igiene e Sanità del Comune, diretto dal prof. F. Vivoli e della Clinica Pediatrica Universitaria, diretta dal prof. Renato Pachioli.
Il mio intervento sarebbe già svolto se dessi lettura integrale di questo lavoro, scelto solo per ragioni di prossimità topografica tra molti altri analoghi. Dovrò invece riassumerlo e corredarlo con qualche altra notizia:
1) Il lavoro precisa che il farmaco sperimentato è il «Neuleptil», una specialità della ditta Farmitalia, che vieneringraziata in una nota a piè di pagina 295.
2) Da autorevoli fonti, non industriali, di lingua inglese, leggo testualmente che il «Neuleptil» «è usato per la cura della schizofrenia acuta e cronica e per la correzione delle turbe comportamentali nelle malattie psichiatriche gravi. È anche utile nella cura della ansietà grave e degli stati di tensione».
3) Dalle stesse fonti leggo che gli «Effetti tossici» gli «Antidoti» e le «Controindicazioni» del Neuleptil sono gli stessi della Clorpromazina, con una segnalazione particolare di «ipotensione posturale e tachicardia» per i bambini.
4) Leggo infine che, nei bambini affetti dalle malattie per le quali il Neuleptil è indicato, la dose iniziale non deve superare 0,5 mg al giorno per anno di età e cioè 1,5 mg per bimbo di 3 anni e 3 mg per un bimbo di 6 anni.
Date queste documentate premesse è naturale chiedersi in quale ospedale psichiatrico i colleghi di Modena abbiano trovato i loro piccoli pazienti, e da quali «gravi malattie psichiatriche» gli sventurati fossero affetti.
La risposta la leggo testualmente nel lavoro a pag. 293: «Per le nostre esperienze abbiamo scelto i bambini frequentanti le Scuole Materne Comunali di Modena. Tale materiale ci ha assicurato una soddisfacente omogeneità di sperimentazione, trattandosi di soggetti osservati dallo stesso personale, negli stessi orari e nello stesso ambiente. Inoltre il rilievo dei comportamenti dei bambini ha potuto essere effettuato da persone competenti, libere dalla suggestione familiare».
Leggo ancora a pag. 294: «Su un totale di 629 bambini di età compresa tra 3 e 6 anni frequentanti 6 scuole materne, sono stati scelti per la sperimentazione 150 soggetti, segnalati per turbe del comportamento nell’ambito della scuola».
A proposito di tale segnalazione merita di essere ricordato che in una noticina a piè di pagina 293 «gli autori ringraziano il corpo insegnante delle scuole materne comunali per la valida collaborazione».
Alla segnalazione-denuncia segue l’istruttoria, cioè usando le parole degli autori: «tutti i bambini sono stati sottoposti ad un periodo di osservazione preliminare di 6 giorni, durante il quale, giorno per giorno, sono state annotate l’intensità e la frequenza dei disturbi».
Alla fine i capi di accusa contro i 150 piccoli criminali di 3, 4 o 5 anni sono ormai formulati con la inappellabile severità del linguaggio medico-scientifico: «aggressività, crisi di collera, isolamento, mutacismo, anoressia nervosa, vomiti funzionali, enuresi diurna o notturna, encopresi, onicofagia, masturbazione, fobie, sonnambulismo, balbuzie».
Ma che città è Modena, dove 1 infante su 4 nelle scuole comunali ordinarie è in queste condizioni? La domanda ha tanto più senso se si ricorda che alla guida della ricerca partecipava il direttore dell’Ufficio igiene e sanità del Comune. Ma egli non poteva porsela perché aveva già stipulato con gli altri autori la clausola metodologica che si legge a pag. 294: «restare nel piano dell’osservazione obbiettiva, quindi fenomenologica, senza spingersi ad interpretazioninosografiche e motivazionali dei comportamenti».
Il dibattimento è dunque inutile, la flagranza è indubbia, la sentenza definitiva: si tengano 50 bambini in osservazione come controllo e agli altri 100 si somministrino per 40 giorni da 4 a 6 mg al giorno di Neuleptil: cioè il doppio della dose massima indicata dai trattati internazionali.
I risultati appaiono subito eccellenti: i piccoli rei di aggressività e crisi di collera diventano «adattati, socievoli e tranquilli». Quelli colpevoli di «isolamento e mutacismo» si omogenizzano con gli altri. Qualcuno che aveva il «vomito funzionale» non sporca più. Uno che si masturbava perde interesse alla faccenda. Con gli enuretici e i balbuzienti lecose vanno meno bene ma non sarà questo ad impedire agli autori di affermare compiaciutamente a pag. 296 che ilNeuleptil ha operato nei bambini un vero «cambiamento di carattere». Pertanto il «Commento conclusivo» da pag. 298 apag. 299 può essere prima illuminante quando dichiara che i comportamenti devianti sono «fenomeni reattivi di personalità affettivamente immature», poi suggestivo quando afferma che il Neuleptil è un medicamento capace di «aprire ai pazienti prospettive di corrette relazioni interumane e ambientali» perché, tra l’altro «sembra rimuovere quelle cariche aggressive che condizionano la reattività abnorme», infine trionfale quando conclude l’elogio definendolo: «farmacoelettivamente socializzante anche per il bambino di 3-6 anni frequentante la scuola materna».
Le insegnanti, già ringraziate, ringraziano compuntamente. La Farmitalia, compuntamente o no, non è certamente da meno.
Ed il lavoro va alle stampe su una rivista scientifica il cui comitato direzionale e referenziale è probabilmente molto rappresentato in questa sala.
Ebbene, questo lavoro – che non è più censurabile di molti altri – è una piccola summa di tante cose.
La manifesta incapacità di intendere del soggetto della sperimentazione, il diaframma alzato tra i bambini-cavia e la loro famiglia, l’uso disinvolto di dosi elevate, l’esposizione a pericoli di vario genere: sono i connotati di un volto che abbiamo già conosciuto e descritto come quello di una sperimentazione che è violenza sull’uomo, compiuta nell’indifferenza morale camuffata da neutralità scientifica. Riconoscerli sulla base di questo e di molti altri lavori che aggravano il mio archivio significa constatare che la sperimentazione neuropsichiatrica in generale e quellaneuropsicofarmacologica in particolare non si distinguono eticamente dalle altre concepite e compiute in diversi settori della medicina clinica. Questa era la prima parte della tesi che ho inizialmente proposta.
Vorrei dedicare i minuti che mi restano allo sviluppo della seconda. Posso farlo riferendomi ancora al già citato lavoro.
Sulla scena che vi ho presentata, leggendone fedelmente il copione, sono apparsi i quattro personaggi di primo piano in ogni storia di questo genere: l’industria, l’istituzione, la scienza e l’autorità. La parte dell’industria farmaceutica è abbastanza risaputa; cito da SCIENCE: «al fine di espandere il mercato potenziale per i suoi prodotti, essa cerca di ridefinire e riclassificare, come problemi medici che richiedono l’uso di farmaci, un ampio spettro di comportamenti umani naturali che sono parte dei cimenti e delle prove della nostra esistenza…» (LEONARD, EPSTEIN, BERNSTEIN e RANSON, 1970).
Che cos’è infatti l’aggressività di un bambino? Risponderò con SHIELDS (1971): «il tentativo di costringere l’ambiente ad occuparsi, anche reattivamente, di lui, a mitigare la sua delusione affettiva».
È la domanda di un bene smarrito, non di 10 gocce di Diazepam. Cosa significa la collera di un fanciullo? Risponderò con WINNICOTT (1958): «un segno favorevole nella misura in cui è interpretato ed usato come superstite possibilità di recuperare un rapporto perduto», non una pastiglia di clordiazepoxide.
Cosa significa il primo furto di un ragazzo? Risponderò con ZILBOORG (1954): «chi di noi non è cresciuto un ladro è stato un bambino fortunato. Fortunato perché nel giorno del suo primo piccolo crimine egli è stato amato ed ha potuto restituire il suo amore» non perché gli sono stati somministrati 6 mg di propericiazina.
Ma non tutti i bambini sono fortunati e quelli poveri lo sono meno degli altri.
Per essi aggressività, collera, furto sono non soltanto l’espressione di una delusione affettiva ma di una deprivazione obbiettiva, dicono non solo l’insufficienza di un rapporto familiare ma anche quella di un possesso di cose con le quali
e sulle quali gli altri bambini crescono e divengono. Chi erano socialmente quei 150 fanciulli «segnalati» dalle insegnanti, quali discriminanti di classe avevano contribuito a separarli dagli altri per farne degli «imputati di devianza»?
Non c’è traccia di risposta a questa domanda, anzi ce n’è il rifiuto. Non sarà certo l’industria farmaceutica ariproporla. Il suo pensiero in proposito ci è noto perché – quali ne siano le buone intenzioni coltivate nei laboratori e dichiarate nei congressi – il suo messaggio, diffuso tra i medici e insinuato nella popolazione, è sotto gli occhi di tutti: dice che il LIBRIUM può tacitare l’ansia prodotta negli operai da un lavoro pericoloso e da un cottimo assillante; suggerisce l’ATARAX per domare l’inquietudine dei giovani e alla depressione degli sconfitti propone il conforto del TOFRANIL.
Così facendo e così assumendo per sé quell’onere e quell’onore della ricerca cui accennava con tanta considerazione il collega Buscaino, essa non serve soltanto il capitale farmaceutico, ma si rende benemerita del capitale quale sistema: per farlo come si deve ha bisogno però, a sua volta, di essere servita dalla scienza medica e dall’autorità sanitaria.
Ed ecco allora comparire l’una e l’altra sulla scena della nostra favola nera. Ecco il pediatra universitario che sceglie i suoi soggetti sperimentali secondo criteri e giudizi dei quali si ritiene il solo autorizzato titolare, secondo scelte e discriminazioni per le quali non ha ritenuto necessario il consenso, secondo propositi e risultati dei quali incredibilmente si compiace. Chi gli ha dato il diritto di «cambiare il carattere» di un bambino? Chi gli ha permesso di compiere questa così violenta operazione «libero da suggestioni familiari»? per conto di chi ha chiuso gli occhi su tutto ciò che in quel carattere di quel bimbo poteva essere ietto intorno alla situazione di quella famiglia?
E in nome di quale autorità il Medico Capo del Comune, che qui doveva tener luogo di quel «Comitato» cui non credo anche se credo che il collega Terrori ci creda, ha legalizzato questa «strage delle devianze innocenti» aprendo al nuovo Erode in pillole le porte di quelle Scuole Materne cui le madri consegnano ogni mattina i loro bimbi con ben altre intenzioni, con ben altre speranze? Facile operazione del resto in una istituzione – il quarto personaggio! – che segnala il 25% dei suoi membri come portatori di «turbe del comportamento» avviandone perciò stesso più d’uno alla carriera di stigmatizzato ed escluso, come alternativa a quella di conculcato e represso.
A questo punto l’esperimento può diventare «routine» e infatti, a distanza di 20 mesi e di venticinque chilometri, si scopre che nell’asilo-nido dell’ONMI di Reggio Emilia il VALIUM 2 viene somministrato sistematicamente a lattanti perfettamente sani al solo scopo di evitare che piangano e disturbino.
La repressione neuropsicofarmacologica può cominciare dalla culla, è già cominciata. Ma per l’istituzione, l’autorità, la scienza medica e l’industria essa ha altro nome: si chiama socializzazione. È questa incauta parola, usata dai nostri colleghi, che rivela l’identità del mandante: il sistema capitalista che sta facendo qui come altrove le sue grandi manovre per trasferire nell’area medica e risolvere nel piano farmacologico la conflittualità sociale e particolarmente giovanile.
È questo sistema, che dettando alla società i suoi modi di produzione, subordinando alle esigenze del suo profitto quelli della convivenza, piegando al suo bisogno di conformismo l’originalità dell’individuo, sacrificando alla divisione del lavoro l’unità del singolo e della famiglia, effettivamente lacera il tessuto, sfregia il volto della società.
È lui che produce la malattia come conflitto, ed è quindi ancora lui che gestisce la medicina come repressione, perché la ribellione sia espulsa come malattia e la malattia sia soffocata come ribellione.
È questa medicina che dopo aver aiutato l’individuo a interiorizzare tutte le contraddizioni del sistema fino a soffrirne come di proprie, fino a smarrire ogni equilibrio e benessere, gli vieta persino l’espressione della sua sofferenza che sarebbe denuncia delle sue cause: all’appello dei sintomi risponde o negandoli, con il trasferimento del malato nel ruolo del disadattato, o silenziandoli con il bavaglio della sedazione farmacologica.
Così anche i rapporti più naturali si deforma no, come ha detto bene anche il collega Giberti: chi doveva essere difeso è definito offensore, chi doveva difendere è abilitato all’offesa. Con l’uso sociale dello psicofarmaco è il medico chesi difende dal malato, l’insegnante dall’allievo, il padre dal figlio.
Più atrocemente ancora è il fanciullo che viene indotto a difendersi da se stesso, da ciò che in lui è più naturale, vivo ed urgente. Quel fanciullo diverrà ragazzo, giovane e uomo: e avrà imparato che c’è un altro modo di porsi in rapporto con la realtà. Non già come impegno di lotta solidale, ma come fuga solitaria: nel farmaco o nella droga, che differenza fa? Eppure fa differenza perché se il primo lo avrà ridotto alla conformità necessaria, cioè alla autorepressionespontanea, egli sarà tollerato da chi invece non gli concederà alcuna pietà se nella seconda avrà cercato un’illusione di rivolta.
È comunque e sempre una rivolta contro il terrore di non essere, una domanda di aiuto per esistere ciò che grida nel pianto di un bimbo, nel gesto aggressivo di un fanciullo, nel tremore di un ansioso, nel lamento di un depresso. nellaimprecazione di un folle.
Quando avremo soffocato questo grido, quando la protesta sarà afona, la sofferenza muta, la collera spenta, quando finalmente crederemo di poterci ascoltare l’un l’altro, non resterà più nulla da dirci: soltanto un vuoto silenzio nel quale risuoni la voce del potere.
Ho finito. Anch’io sono stato aggressivo, collerico, urtante ma non mi giustifica l’inconsapevolezza del bimbo.Eppure, come la sua anche la mia accusa è una domanda, la mia protesta è una speranza. Formulate dall’interno di unsistema nel quale io stesso vivo il mio impegno, ma anche la mia contraddizione.
Per questo non ho caro quello che ho detto, ma l’ho detto per chi mi è caro: un altro medico come me, un altro ricercatore come me, un altro insegnante come me che dia a me la certezza che ho cercato di suscitare in lui. Che in ogni punto del sistema – in ogni sede, in ogni lavoro, in ogni funzione – c’è un posto di lotta se vogliamo combatterla insieme, insieme con i compagni della unica lotta che conti.