By L. ALAN SROUFE* – New York Times
Traduzione a cura di Ilaria Pagliotta per il Comitato GiùleManidaiBambini
Tre milioni di bambini americani fanno uso di farmaci per contrastare l’incapacità di concentrarsi. Verso la fine dello scorso anno buona parte dei loro genitori sono entrati in uno stato di allarme a causa della penuria di farmaci come il Ritalin e Adderall, da loro considerate assolutamente essenziali alla gestione dei propri figli.
Ma questi farmaci sono davvero di ausilio per questi bambini? E’ davvero necessario continuare ad aumentare il numero di prescrizioni?
In trent’anni l’uso di questi farmaci per la cura del disturbo da deficit dell’attenzione si è ventuplicato.
Avendo studiato per oltre quarant’anni lo sviluppo nei bambini affetti da disturbi, credo che dovremmo iniziare ad interrogarci sul perché ci affidiamo così ampiamente a questo tipo di farmaci.
I farmaci che contrastano il deficit dell’attenzione aumentano la concentrazione a breve termine, ed è questo il motivo per il quale godono di così tanto successo tra gli studenti sotto esame. Ma se somministrati a bambini continuativamente nel tempo, non ne migliorano né il rendimento scolastico, né i problemi comportamentali. Senza dimenticare i numerosi effetti collaterali che potrebbero sopraggiungere, come forti rallentamenti nella crescita.
La cosa triste è che sono pochi i medici ed i genitori ad essersi resi conto di quanto emerso sulla poca efficacia di questi farmaci.
Ad essere pubblicizzati sono gli studi ed i risultati a breve termine sulle differenze cerebrali tra i bambini. Ed in effetti sono numerosi ed incontrovertibili i fatti che di primo acchito sembrano andare a sostegno di questa terapia. Ed è proprio a causa di questi parziali fondamenti di verità che è difficile vedere il problema di questo tipo di approccio terapeutico sui bambini.
Negli anni 60, ho creduto, come la maggior parte degli psicologi, che i bambini con difficoltà di concentrazione soffrissero di problemi cerebrali genetici o congeniti. Come i diabetici di tipo 1 hanno bisogno dell’insulina per correggere i difetti congeniti dei loro meccanismi biochimici, si pensava che questi bambini avessero bisogno di farmaci contro il deficit dell’attenzione per correggere i propri. A quanto pare però le prove a sostegno di questa teoria sono scarse se non assenti.
Nel 1973 ho analizzato la letteratura che ha affrontato l’argomento della terapia farmacologica per il “The New England Journal of Medicine”.
Decine di autorevoli studi-controllo hanno dimostrato che questi farmaci migliorano nell’immediato il rendimento dei bambini nello svolgimento di compiti ripetitivi, che richiedono concentrazione e diligenza. Ho condotto personalmente uno di questi studi. Insegnanti e genitori hanno confermato i miglioramenti comportamentali per quasi tutti gli studi nel breve termine. Ciò si è tradotto in un maggior uso della terapia farmacologica, facendo spesso giungere alla conclusione che l’ipotesi di un “deficit cerebrale” fosse confermata.
Ma erano ancora molti gli interrogativi ad emergere, soprattutto riguardo il meccanismo di azione farmacologica e la durata degli effetti. Il Ritalin e l’Adderall, una combinazione di destro-anfetamine e anfetamine, sono degli stimolanti. E allora perché sembrerebbero calmare i bambini? Alcuni esperti ritengono che poiché gli encefali dei bambini con problemi di attenzione differiscono molto tra loro, questo farmaco esercita un misterioso effetto paradossale su di essi.
In realtà non si tratta di nessun paradosso. Delle varianti di questi farmaci sono state somministrate ai radaristi durante la seconda guerra mondiale per mantenerli vigili e concentrati durante lo svolgimento di mansioni noiose e ripetitive. E prendendo in rassegna la letteratura sui farmaci utilizzati nella cura del deficit dell’attenzione nel 1990, è venuto fuori che tutti i bambini, con o senza problemi di attenzione, rispondono ai farmaci stimolanti nello stesso identico modo. Inoltre, se da un lato il farmaco aiutava i bambini a inserirsi in classe, dall’altro aumentava la loro attività durante i giochi. Gli stimolanti provocano generalmente gli stessi effetti in adulti e bambini. Migliorano la capacità di concentrazione, soprattutto per quei compiti che si presentano poco interessanti, o quando sopraggiungono noia e affaticamento, ma non aiutano ad ampliare la capacità di apprendimento di chi li assume.
E proprio come si è osservato in molti di coloro che seguono una dieta per perdere peso, usando e poi abbandonando farmaci simili, allo stesso modo gli effetti degli stimolanti sui bambini con problemi di attenzione vanno scemando dopo un uso prolungato. Alcuni esperti sostengono che i bambini affetti da ADD non sviluppano questa tolleranza al farmaco in ragione della differenza cerebrale di ciascuno di essi.
Ma nei fatti, la perdita di appetito e sonno nei bambini a cui sono stati prescritti per la prima volta dei farmaci contro deficit dell’attenzione svaniscono, proprio come –è noto a tutti- i suoi effetti sul comportamento. Si sviluppa una tolleranza apparente al farmaco e così ne svanisce l’efficacia. Molti genitori che fanno sospendere il farmaco ai propri figli affermano di vedere peggiorato il comportamento dei bambini, cosa che conferma la loro fiducia nell’efficacia del farmaco. Tuttavia in realtà il comportamento peggiora perché l’organismo dei bambini si è assuefatto al farmaco. Gli adulti possono presentare delle reazioni analoghe se repentinamente smettono di fumare o di bere caffè.
Ad oggi non esistono studi che accertino i benefici a lungo termine dovuti ai farmaci contro il deficit dell’attenzione che incidano sul rendimento scolastico, sull’inserimento con i coetanei e sui problemi comportamentali, veri aspetti sui quali si vorrebbe agire.
Ma nel 2009, sono stati pubblicati i risultati di un buono studio retrospettivo, condotto su un periodo di tempo di oltre dieci anni. I risultati in questione parlavano chiaro. Lo studio ha assegnato casualmente a 600 bambini con deficit dell’attenzione quattro tipi di terapia. Alcuni sono stati sottoposti esclusivamente a terapia farmacologica, altri solo a terapia congnitivo-comportamentale, altri ad una combinazione delle due, e gli ultimi sono stati inseriti in un gruppo controllo presso un istituto di cura e non sono stati sottoposti a terapie sistematiche. Inizialmente lo studio ha evidenziato che il trattamento farmacologico, o la combinazione tra la terapia comportamentale e quella farmacologica, producessero i risultati migliori. Tuttavia, dopo tre anni, questi effetti benefici sono scomparsi, e dopo otto anni non è emersa nessuna prova che i farmaci generassero degli effetti benefici né sul rendimento scolastico, né sul comportamento.
E invece tutti gli effetti benefici tendevano a scomparire nel tempo, anche se bisogna considerare che lo studio sia ancora in corso. Chiaramente i bambini necessitano di un sostegno a più ampio raggio, rispetto a questo offerto loro nello studio, un sostegno che deve iniziare più precocemente e proseguire in maniera più duratura.
Tuttavia, i risultati ottenuti nel campo della neuroscienza vengono utilizzati a sostegno della terapia farmacologica nella cura dei cosiddetti “difetti congeniti”. Questi studi dimostrano che i bambini diagnosticati con ADD dispongono di diversi schemi celebrali di neurotrasmettitori e altre anomalie. Anche se la sofisticata tecnologia impiegata in questo tipo di studi può far leva sullo stupore di genitori e non addetti ai lavori, rimangono studi fuorvianti. È naturale che da una risonanza encefalica, l’encefalo di bambini con problemi comportamentali possa presentare delle anomalie. Non potrebbe essere altrimenti, il comportamento e il cervello sono interconnessi. Anche la depressione va e viene in molti soggetti, e nel farlo avvengono dei cambiamenti paralleli nelle loro funzioni cerebrali, a prescindere dall’uso di farmaci.
In molti degli studi cerebrali condotti nei bambini con ADD, i partecipanti vengono esaminati durante lo svolgimento di mansioni che implicano la capacità di attenzione. Se questi bambini non prestano attenzione per mancanza di motivazione o per una sottosviluppata capacità di regolare il proprio comportamento, le immagini cerebrali riprodotte dalla risonanza presenteranno certamente delle anomalie.
Comunque venga misurato il funzionamento cerebrale, questi studi non ci dicono niente sull’origine delle osservate anomalie, se esse siano congenite o scaturite da un trauma, dallo stress cronico o da esperienze vissute nei primi anni di vita. Uno dei risultati più significativi ottenuti dalla neuroscienza degli ultimi anni è stato quello di dar prova che lo sviluppo cerebrale è modellato sull’esperienza.
È inopinabile che un gran numero di bambini presenti dei problemi di attenzione, autodisciplina e comportamento, ma questi aspetti erano presenti anche alla nascita o sono forse causati da esperienze vissute nei primi anni dell’infanzia? A queste domande si può trovare risposta solo se si studiano questi soggetti da prima della nascita e attraverso l’infanzia e l’adolescenza, come da decenni facciamo io ed i miei colleghi dell’Università del Minnesota.
Sin dal 1975 abbiamo seguito 200 bambini nati in un contesto di indigenza e per questo particolarmente soggetti a problemi comportamentali. Li abbiamo osservati sin dal grembo materno e durante il corso della loro vita, cercando di indagare il loro rapporto con il personale sanitario, gli insegnanti ed i coetanei. Abbiamo seguito i loro progressi scolastici e le loro esperienze nei primi anni dell’età adulta, misurando a intervalli regolari il loro comportamento, il loro stato di salute, osservando i risultati di test d’intelligenza condotti su di essi, e prendendo in considerazione anche altre caratteristiche.
Nella tarda adolescenza al 50% dei soggetti del nostro campione è stato diagnosticato un qualche disturbo psichico. Quasi la metà ha presentato almeno una volta dei problemi comportamentali a scuola, ed il 24% ha abbandonato gli studi dopo la maturità, il 14% soddisfaceva i criteri per ADD entro i primi sei anni di scolarizzazione (o in prima elementare o in prima media).
Altri studi epidemiologici su larga scala confermano queste tendenze nella popolazione generale dei bambini svantaggiati. Tra tutti i bambini, appartenenti a tutti i gruppi socio-economici, l’incidenza di ADD è stimata attorno all’8%. I nostri risultati ci hanno portato a scoprire che l’ambiente in cui cresce un bambino può predire lo sviluppo di problemi legati all’ADD. Contrariamente a ciò, le anomalie neurologiche rilevate alla nascita, QI e temperamento del neonato, ivi incluso il livello di attività neonatale, non preannunciano il manifestarsi dell’ADD.
Anche molti dei bambini benestanti vengono diagnosticati con ADD. I problemi comportamentali infantili possono avere diverse origini. Alcuni di questi bambini vivono stress familiari legati a violenza domestica, mancanza di sostegno sociale da parte di amici o parenti, condizioni di vita disordinate, come ad esempio frequenti sradicamenti dal proprio contesto, e soprattutto ricorre l’insistenza genitoriale a fornire degli stimoli inopportuni al proprio piccolo già dai primi mesi di vita. Si può fare l’esempio di un bambino di sei mesi che mentre gioca, viene bruscamente preso da dietro dai genitori, per essere immerso in una vasca da bagno. O ancora, un bambino di tre anni che prova frustrazione nel risolvere un problema, mentre uno dei genitori lo schermisce o lo ridicolizza. Questi comportamenti reiterati stimolano eccessivamente il bambino e ne compromettono la capacità di auto-regolamentazione.
Sottoporre i bambini a cure farmacologiche non serve a mutare le cause iniziali che deviano lo sviluppo dei bambini stessi. Eppure tali cause ricevono scarse attenzioni. I decisori politici sono così convinti che i bambini colpiti da deficit dell’attenzione soffrano di una malattia organica che hanno tolto di mezzo tutte le ricerche volte ad una comprensione più ampia di questa condizione. L’Istituto Nazione di Igiene Mentale finanzia delle ricerche che mirano in particolare alle componenti fisiologiche e cerebrali dell’ADD. E se esiste qualche ricerca su approcci terapeutici alternativi, esistono ancor meno studi che riguardano il ruolo svolto dall’esperienza. I ricercatori, ben consapevoli di questo orientamento, tendono a sostenere solo studi sovvenzionati che sviscerino la biochimica dei processi.
Dunque ci si chiede soltanto se esistano degli aspetti del funzionamento cerebrale associati a problemi di attenzione sviluppati nell’infanzia. La risposta a questa domanda è sempre sì. Per il resto si sorvola sulla possibilità reale che, tanto le anomalie cerebrali, quanto l’ADD, risultino dall’esperienza.
L’atteggiamento sostenuto ci pone difronte numerosi rischi. Innanzitutto non esisterà mai una soluzione univoca per tutti i bambini con problemi di apprendimento e di comportamento. E anche se uno sparuto gruppo di pazienti traesse beneficio a breve termine dal trattamento farmacologico, somministrare su larga scala e per un lungo periodo questi farmaci a milioni di bambini non è la risposta giusta al problema.
In secondo luogo, una terapia farmacologica infantile a tappeto non fa altro che alimentare la dilagante scuola di pensiero che vuole porre rimedio a tutti i problemi della vita con un farmaco, dando l’impressione a milioni di bambini di avere qualcosa di sbagliato dentro di loro.
Infine, l’illusione di poter curare i problemi comportamentali dei bambini con una medicina impedisce alla nostra società di sviluppare soluzioni più complesse del necessario. Le medicine tengono tutti in pugno: politici, studiosi, insegnanti e genitori. Tutti tranne i bambini.
Se le medicine, la cui efficacia ha una durata comprovata solo dalle quattro alle otto settimane, non sono la risposta al problema, allora qual è la soluzione? Molti di questi bambini soffrono di ansia e depressione, altri manifestano gli stress vissuti in famiglia. Bisogna trattare ogni caso individualmente.
Per quanto riguarda la carenza di approvvigionamento dei medicinali ci saranno alti e bassi, e poiché fanno parte della normale prassi, il Congresso decide quante produrne. Il numero approvato non risponde alla dilagante ondata di prescrizioni. Dalla fine di quest’anno è molto probabile che si verifichi ancora carenza, visto che continuiamo a riporre la nostra fiducia su quei farmaci che in realtà non agiscono laddove, secondo genitori, medici e insegnanti, dovrebbero agire.
*L. Alan Sroufe è professore emerito di Psicologia alla “University of Minnesota’s Institute of Child Development”.