di Rosa Linda Rizza* – Fonte: rivista on-line 2015 della SIAB (Società Italiana di Analisi Bioenergetica).
In questo articolo, l’autrice prende spunto da un libro per bambini sul tema della rabbia per esprimere le proprie considerazioni in merito al sostanziale analfabetismo emotivo che impregna sia le nostre pratiche che le nostre politiche educative Analizzando le interazioni e il dialogo emotivo genitore-figlio, vengono esplorati alcuni aspetti dei meccanismi psichici alla base della strutturazione del falso sé.
Rabbia, rispecchiamento, sintonizzazione affettiva, rêverie, falso sé
E’ opinione diffusa che un contributo significativo al futuro dell’ umanità potrebbe giungerci dallo sviluppo ulteriore della nostra capacità di dialogare.
Al momento dobbiamo riconoscere che prevale di gran lunga la nostra “capacità” di promuovere e alimentare ingiustizie mostruose e guerre sanguinose o, quanto meno, prevale la nostra impotenza a limitarle, se non a prevenirle del tutto.
Eva Reich ci ha ricordato spesso le parole di Gandhi << la pace ha inizio nell’utero materno >> e Silja Wendelstadt, sua allieva e continuatrice della sua opera in Italia, ha messo in campo tutto il proprio impegno per diffondere questa profonda verità << (…) sappiamo quanto sia contagiosa ogni forma di violenza subìta, sappiamo che un bambino maltrattato sarà un genitore che rinnoverà questa violenza, sappiamo che dobbiamo interrompere questa catena. Eva ci insegna come, invitandoci a salvare l’umanità in ogni singolo bambino che nasce.>> (Reich, Zornànszky, 1997, p. XVII)
Queste, a mio parere, le ragioni di fondo per le quali abbiamo il sacro compito di nutrire e rinnovare continuamente il dialogo tra tutti coloro che sono profondamente interessati al futuro dell’infanzia, tra tutte le persone che si adoperano per il benessere dei bambini dal loro concepimento in poi, per accompagnarli e sostenerli nel loro cammino evolutivo.
L’occasione di esprimere un mio punto di vista sui temi in questione mi viene offerta da un libro scritto e illustrato da Mireille d’Allancè intitolato “ Che rabbia! ” edito da Babalibri nel 2012 e indicato dai tre anni d’età.
L’ho trovato non molto tempo fa in un asilo nido in cui lavoro in qualità di coordinatrice, portandomi dietro, come di consueto, la mia formazione e la mia esperienza di educatrice, di madre, di psicologa e psicoterapeuta.
Dirò subito che la lettura di questo testo mi ha lasciato decisamente colpita, sicuramente arrabbiata.
A dir meglio, non mi ha colpito tanto il libro in sé, dopotutto abbiamo esperienza di scritti non sufficientemente buoni, se non addirittura dannosi. Né mi hanno colpito le innumerevoli recensioni positive che ho trovato nei siti preposti alla vendita di libri, sappiamo altrettanto bene di operazioni commerciali capaci di vendere di tutto.
Quello che mi ha lasciato più stupìta è stato il successo che questo libro sta riscuotendo tra genitori ed educatori, di conseguenza il vasto utilizzo che se ne sta facendo nell’ambito di istituzioni decisive per la funzione formativa che svolgono nei confronti dell’infanzia.
Perchè questo testo è stato accolto in maniera così positiva e come mai la soluzione che esso propone sta diventando l’occasione per promuovere laboratori che felicemente la adottano?
Prima di provare a rispondere a queste domande, vorrei fare alcune considerazioni.
Dalla mia prospettiva, nonostante i suoi gravi limiti, questo scritto ha comunque un grande pregio: quello di mostrarci, con un’evidenza sconvolgente, il modo con cui la maggioranza degli esseri umani, soprattutto nella nostra cultura occidentale, si accosta al mondo delle emozioni, in particolare alle emozioni cosiddette “ negative” e soprattutto alla rabbia, ritenuta molto spesso un’emozione tabù.
Questo libro, in altre parole, rappresenta uno strumento prezioso per la funzione di specchio che può esercitare ai nostri occhi, sempre che siamo disponibili ad aprirli…
La mia proposta iniziale sarebbe quella di annoverarlo, nel panorama attuale della letteratura per l’infanzia, tra gli scritti più significativi nel testimoniare, a fronte di esperienze meravigliose di cui il nostro Paese si è fatto portatore (Lorenzi, 2001), il sostanziale analfabetismo emotivo di cui sono impregnate sia le nostre pratiche che le nostre politiche educative.
Se dal fallimento si può apprendere moltissimo, tanto da poterne fare un elogio (Recalcati, 2013), potremmo elogiare questo testo quale lucido specchio della povertà emozionale del nostro mondo interiore ed esteriore .
Se così non fosse, come potremmo dare significato a quello che osserviamo?
Le proiezioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono alquanto eloquenti. Un bambino su cinque è affetto da psicopatologie e si calcola che entro i prossimi vent’anni il 50% della popolazione minorile soffrirà di questi disturbi. Tra i fattori di rischio psico-sociale alla base del disagio infantile, sempre secondo l’OMS, assumono grande rilievo gli stili educativi.
Ma torniamo al libro in questione poichè esso rappresenta , a mio parere, un preciso stile
dis-educativo.
Proverò a sfogliarlo mentre scrivo le mie impressioni.
Roberto, un bambino tra i tre e i cinque anni circa, sta entrando in casa. L’espressione del suo viso è avvilita, triste e mortificata. La sua racchetta ha un buco evidente. L’autrice scrive che << ha passato una bruttissima giornata.>>
Alla porta d’ingresso non trova nessuno ad accoglierlo, si sente solo la voce del padre che dalla cucina (si vede appena il viso e un mestolo nella mano) ha notato esclusivamente le impronte delle scarpe sporche di terra e con tono sostenuto gli intima di toglierle. Nessun contatto tra loro, il padre non ha neanche guardato negli occhi il figlio per accorgersi del suo stato d’animo. Non è un caso che l’espressione del volto di Roberto inizi a tramutarsi decisamente in rabbia e in stizza.
Neanche il lancio delle scarpe in aria, con cui Roberto gli risponde, induce il padre, sgomento, a lasciare immediatamente quello che sta facendo per andare a vedere cosa succede. Tutto procede come da routine: “ Show must go on ”.
Il padre porta a tavola la pietanza. Ci si potrebbe augurare che lì, finalmente, ci sarà modo di vedersi, parlarsi, raccontarsi…dando al momento del pasto il suo valore sociale, la sua valenza di nutrimento e sostegno psico-affettivo.
Purtroppo la pagina successiva ci riserva una brutta sorpresa. Vediamo Roberto solo a tavola, vicino a lui una sedia vuota e sulla tovaglia bianca immacolata il suo unico piatto pieno degli odiati spinaci ( chissà se il padre ne sa qualcosa…), il suo unico bicchiere e la sua unica forchetta. Il padre è sparito. Nessuna traccia di altre presenze oltre quella di Roberto, con il suo viso sbigottito, i suoi occhi sgranati e la sua bocca incredula davanti agli stomachevoli spinaci. Ci potrebbe ricordare l’urlo terrorizzato di Munch.
Ricomincia il “ dialogo ” , o meglio, il battibecco a distanza chilometrica.
Roberto è ancora stizzito: << Piuttosto non mangio!>> Il padre lo spedisce in camera ordinandogli di non scendere fin quando non si sarà calmato. Il bimbo sale le scale più arrabbiato che mai, quando arriva al piano di sopra è in preda ad una furia devastante.
Fermiamo un attimo la nostra lettura. A cosa abbiamo assistito fin’ora? Direi a qualcosa che potremmo definire “Oltre al danno anche la beffa!”
Roberto è arrivato a casa molto triste e frustrato, ma l’unico genitore presente è un padre che del principio femminile ha interiorizzato solo qualche aspetto di facciata (prepara da mangiare…) e del maschile solo l’autoritarismo di vecchio stampo. Come un automa ha continuato a preparare e a servire il pasto, ma assicurato il nutrimento fisico si è defilato senza condividere questo momento così importante con il proprio figlio.
Come si può notare, la rabbia di Roberto, probabilmente presente in sottofondo già all’entrata dato lo stato evidente di frustrazione, è andata aumentando sempre di più, si è moltiplicata in seguito al clima relazionale innescato dal padre.
Sappiamo che il genitore, o il caregiver, quale figura primaria di attaccamento, rappresenterà sempre per il bambino un modello di riferimento costante, quello che imiterà e interiorizzerà prestissimo e soprattutto al di fuori di qualsiasi consapevolezza. Un pattern che in seguito sarà difficile cambiare perchè fissatosi precocemente nella sua memoria corporea. In altre parole, un esempio che entrerà letteralmente nella sua pelle, nella sua carne, nelle sue ossa, fino al midollo. Ce ne accorgiamo tristemente quando ci ritroviamo a riproporre automaticamente ai nostri figli comportamenti che non ci piacevano affatto nei nostri genitori ed erano quindi motivo di aspri conflitti.
Il padre che vediamo in questo testo, e in questa circostanza, è una persona che si occupa solo tecnicamente del figlio: gli apre la porta di casa giusto per farlo entrare, ma senza accoglierlo realmente; gli da la regola di non sporcare casa, ma senza valutare perchè la stia violando; gli prepara il pasto, ma senza tener conto dei suoi gusti e senza fargli compagnia a tavola. E, dulcis in fundo, ecco la beffa finale, gli nega anche il diritto di arrabbiarsi, di protestare, pena l’esonero dalla possibilità di essere in relazione .
Adesso Roberto sa che quando si oppone non ha diritto di stare né col padre né con altri, si deve isolare in camera fin quando non si sarà calmato.
Vedremo in seguito che il bambino farà la stessa cosa con la propria rabbia: la reprimerà e non le darà il diritto di manifestarsi mai più. Peccato che nel tempo avrà certamente modo di verificare quanto possa essere illusoria questa aspettativa. << La capacità di contenere la rabbia è il corrispettivo della capacità di esprimerla efficacemente. Il controllo cosciente necessario al contenimento è equivalente alla coordinazione e alla fluidità dell’azione che esprime la rabbia. Perciò una persona non può sviluppare la capacità di controllo a meno che non sviluppi anche la capacità di espressione.>> (Lowen, 1994, p. 105 )
Osserviamo un genitore che non è in grado di empatizzare, di partecipare ai vissuti emotivi del proprio bimbo, un padre che non sa mettere in pratica funzioni indispensabili ad un sano sviluppo infantile, come quella che Donald Winnicott (1967) ha chiamato “rispecchiamento” o quella che Daniel Stern (1985, p.147-168) ha definito “sintonizzazione affettiva ”.
Assistiamo, al contrario, da parte dell’adulto educatore, a tutta una serie di condotte dissociative ed evitanti, di per sé patogenetiche nella loro potenza squalificante e disconfermante.
Molto spesso, possiamo rilevare nei bambini la carica esplosiva delle loro espressioni emotive. Il loro corpo-mente, il loro Sé, non ha ancora sviluppato la capacità di mettere quei confini in grado di contenere e regolare le forti emozioni da cui possono sentirsi completamente invasi e quindi potenzialmente distrutti.
Cosa fare in questi casi? Ci risponde Wilfred Bion (1962, p. 67-68) partendo da un’altra domanda:
<< (…) con che cosa ama la madre? Io penso che, oltre che con i canali fisici di comunicazione, il suo amore venga espresso per mezzo della rêverie.(…) presupponiamo che la rêverie sia la fonte psicologica che provvede al bisogno di amore e di comprensione del bambino(…)>>. Con questo termine, Bion intende la capacità materna di accogliere dentro di sé le forti emozioni del bambino, elaborandole come il piccolo non sa ancora fare. Il genitore assume la funzione di regolatore delle emozioni, di grande contenitore in grado di dare un senso agli eventi emotivi che il bambino, al momento, sa solo espellere, evacuare , fare esplodere fuori di sé. Se non trova nessuno a raccoglierli e a riproporglieli in una forma più accettabile, questo testo di Mireille D’allance ci mostra chiaramente quello che potrebbe accadere quando la dose di frustrazione non è più ottimale per il bimbo (Kohut, 1977), quando il padre gli restituisce quella stessa emozione, ma adesso moltiplicata perchè alla rabbia del figlio ha aggiunto la propria rabbia negata, priva cioè della possibilità di essere integrata piuttosto che agita impulsivamente
Procedendo nella lettura, vediamo infatti Roberto in camera sua, si è appena chiuso la porta alle spalle. L’autrice scrive che << sente una Cosa terribile che sale…sale…sale, fino a quando…>> il volto del bimbo diventa sempre più rosso e assistiamo ad una sorta di enorme ruggito che erompe dalla sua bocca allargata a dismisura, lasciando uscire una specie di yeti, un abominevole scimmione rosso che comincia a distruggere tutto ciò che trova intorno a sé. Roberto lo lascia fare per un bel po’ finchè comincia a mettere le sue grandi zampe nel baule dei giocattoli. In quel momento il bimbo ha come un improvviso risveglio: << Aspetta, quello no!>> gli urla. Ma “la Cosa” (l’innominata e innominabile emozione) continua la sua opera di distruzione fin quando Roberto non le chiede di fermarsi. Comincia così a ricomporre i suoi oggetti più cari. La mostruosa creatura si rimpicciolisce man mano che la rabbia diminuisce. Roberto la prende, la rinchiude dentro una piccola scatola azzurra (forse l’autrice spera nei poteri terapeutici di questo colore rilassante…) e le dice di non muoversi più da lì dentro. In altre parole, non ci si deve mai arrabbiare, neanche in maniera contenuta.
Poi, come se non fosse successo nulla, come se non ci fosse niente da elaborare, da digerire, si vede Roberto che, serenamente, esce dalla stanza e dalla cima delle scale chiede al padre se è rimasto un po’ di dolce, obbedendo così all’ingiunzione di scendere solo quando si sarebbe calmato.
A questo punto l’opera di annullamento è stata completata magistralmente. Non c’era alcuna ragione per essere così cattivo. Non c’era niente per cui protestare con il padre. La funzione positiva della rabbia è stata pervertita in mostruosità. La scissione e la rimozione di una parte autentica del Sè ha trovato il suo terribile compimento.
Roberto è pronto a ritornare il bravo bambino, quello che i suoi genitori si aspettano da lui. Non può ancora rendersi conto che sta uccidendo il proprio vero Sé per lasciare spazio solo al falso Sé compiacente. Questa è l’unica possibilità che gli resta per farsi accettare ed “amare”. (Miller, 1985 )
Emerge con sempre maggiore chiarezza che in questa famiglia, come in molte altre, l’emozione della rabbia è un vissuto che non può essere albergato nel proprio mondo interno (Marcoli, 1996). Si avvia in tal modo un circolo vizioso, una coazione a ripetere in funzione della quale le emozioni scisse e rimosse vengono poi rivolte contro il Sé, contro l’Altro o l’Ambiente, provocando da un lato depressione, masochismo, passività, inibizione e dall’altro delinquenza, antisocialità, devastazioni ambientali. In poche parole: guerre e distruzioni all’interno e/o all’esterno del Sé.
Sto cercando di dire che questa modalità di relazionarsi alle emozioni negative non fa altro che preparare il terreno per altre esplosioni emotive che saranno sempre più gravi se non si trova lo spazio per dare loro il diritto di esistere e di esprimersi nella maniera più adatta alla realtà.
Ho lasciato in sospeso le domande che mi ponevo all’inizio di queste mie riflessioni.
Perchè questo libro è stato accolto così positivamente e non ha suscitato ancora nessuna reazione di allarme?
Io credo che questo dipenda dal dato di fatto che i suoi contenuti si adattano perfettamente
ai diktat, impliciti o espliciti, della nostra cultura occidentale profondamente narcisistica e “negazionista” dei sentimenti, ma non del sentimentalismo. Una cultura che mina alle radici l’autenticità del Sé, del suo bisogno e del suo desiderio di esprimersi in tutta la gamma delle proprie emozioni, per dare loro senso, per metterle in dialogo e farne materia di scambio relazionale, cogliendone così tutta la preziosità nell’essere in rapporto con il mondo
<<La negazione dei sentimenti che caratterizza tutti i narcisisti è evidentissima nel loro comportamento verso il prossimo. Possono essere spietati, sfruttatori, sadici e distruttivi nei confronti dell’altro perchè sono insensibili ai suoi sentimenti e alle sue sofferenze. E lo sono perchè sono insensibili ai loro stessi sentimenti. L’empatia, la capacità di sentire i sentimenti e gli stati d’animo delle altre persone, è una forma di risonanza.(…) Quando neghiamo i nostri sentimenti, neghiamo che altri ne abbiano.>> (Lowen, 1983, p. 50-51)
Nel mio ambiente di lavoro terapeutico ricorre spesso un’immagine molto semplice ed efficace. “ Il rubinetto delle emozioni è unico.” Come a dire, non esiste il canale delle emozioni negative che può essere chiuso a volontà per lasciare aperto solo quello delle emozioni positive. Se inibiamo il contatto con le prime blocchiamo anche quello con le seconde. La nostra felicità, la nostra gioia, la nostra serenità saranno solo un’illusione, una maschera permanente e inconsapevole a tutto vantaggio di chi ci vuole sempre calmi, sereni, sorridenti. << E sempre allegri bisogna stare (…)>>1
D’altronde che ragione avremmo, in questo nostro mondo, di provare tristezza, dolore, rabbia, paura, repulsione, vergogna, rimorso?
Nessuna in effetti! Saremmo solo dei mostri che meritano, nel migliore dei casi di essere rinchiusi in una stanza o in una scatola, nel peggiore in luoghi di contenzione, sia questa fisica o chimica. 2
1 cfr.: Dario Fo, Paolo Ciarchi “ Ho visto un re” , brano inciso da Enzo Iannacci nel 1968, all’interno dell’album “ Vengo anch’io. No, tu no ”, censurato a Canzonissima ’68
2 cfr.: giulemanidaibambini.org La più rappresentativa campagna di farmacovigilanza pediatrica in Italia
*Rosa Linda Rizza, psicologa, psicoterapeuta, membro della Società Italiana di Analisi Bioenergetica (SIAB). Specializzata nell’approccio psico-corporeo prima presso la SIMP (Società Italiana di Medicina Psicosomatica) e poi presso la SIAB della quale è Socia e già Tutor degli allievi medici e psicologi nel Training quadriennale di formazione dal 2007 al 2010.
Dal 1984 al 1998 ha lavorato nell’ambito della Cooperazione, in convenzione con il Comune di Roma, occupandosi di Servizi Sociali rivolti sia a Minori che alla Terza e Quarta Età.
Attualmente, oltre a svolgere attività privata di psicoterapia, si occupa di supervisione e coordinamento di gruppi educativi, consulenza e sostegno alla genitorialità in nidi d’infanzia privati o in convenzione con Roma Capitale.