Educatrice e mamma di un bambino con necessità particolari, Cristina ha tentato di coniugare difficoltà e competenze in un progetto per la scuola… tagli ai fondi, ottusità e burocrazia hanno reso impossibile tutto ciò. Cronaca di un’occasione persa.
(Intervista a cura di Luca Poma, Portavoce del Comitato GiùleManidaiBambini ONLUS)
D-Dott.ssa Rocchetto, avevamo in progetto un’altra intervista…
R-Purtroppo sì, ma la vita non va sempre come si è previsto…
D-Cominciamo dall’inizio, così come doveva essere: da anni lei si occupa dei bambini con problemi di attenzione. Ci dice esattamente in quale maniera?
R-Legata alle campagne contro l’ab-uso di psicofarmaci, sono strettamente in contatto con varie associazioni; da anni, scrivo su questi temi articoli rintracciabili sotto il mio nome sul Web – alcuni sono gentilmente e con mia autorizzazione riportati anche sul vostro portale. Scrivendo, cerco di diffondere informazione, perché mi rendo ben conto pure io di quanto certa propaganda “commerciale” sia riuscita a far collegare comunemente il termine “iperattività” a quello di “malattia” o di “disturbo mentale”, parole che implicano la necessità della “cura”: io cerco di dare il mio modesto contributo al fine di scardinare le fondamenta di questa mentalità pregiudiziale e pericolosa per la salute di molti ragazzini in realtà solo difficili e non violenti.
D-Lei non ha sempre vissuto in Italia…
Italiana di nascita, sono emigrata vent’anni fa all’estero e ho vissuto soprattutto tra Londra e la Germania. La Germania è stato il Paese in cui la vita mi ha posto di fronte a questa grave realtà, lì comunemente affrontata facendo ricorso ai farmaci – peraltro usati con notevole facilità in altri Paesi occidentali (da qualche anno anche in Italia) – ma in Germania in particolare anche alla scuola differenziale. Tornata in Italia, come educatrice e teorica ho sentito profondamente una grave lacuna nella maniera in cui si affronta l’emergenza sociale di questo tipo di problematica dilagante ormai nelle scuole: la mancanza, negli istituti scolastici, di un aiuto specifico che vada incontro in modo autenticamente funzionale al problema concreto del come agevolare il comportamento in classe di questi bambini. Molti miei colleghi e molti psicologi e/o operatori sociali di varia formazione cercano di fare qualcosa, ma soprattutto in contesti extrascolastici spesso mal collegati alla scuola; sebbene il sostegno scolastico sia un diritto non limitato ai bambini gravati da disabilità, il taglio dei finanziamenti diretti alla scuola non consente questo tipo di supporto per tutti i numerosissimi casi. Io volevo poter entrare nelle scuole, ritenendo necessario che questi minori mantengano alti i loro livelli attentivi sia a vantaggio della loro integrazione nel gruppo dei loro compagni e, di conseguenza, dell’accettazione e non emarginazione da parte delle famiglie di questi; sia a vantaggio del loro effettivo rendimento scolastico.
D-Cosa aveva dunque pensato di fare?
R-Già un anno fa avevo sottoposto all’attenzione del Sindaco del mio Comune, all’Assessore di competenza ed alla Dirigente del suo dipartimento l’idea di un progetto; con esso, volevo rispondere in modo concreto a due diverse esigenze collegandole in maniera operativamente efficace: aiutare scuola, famiglia e ragazzi a lavorare insieme concentrando il mio intervento di educatrice ai casi che la scuola si rende conto di non poter gestire da sola; ed al contempo, mostrare quanto variegata, flessibile e vasta possa essere l’attività di una persona laureatasi in Scienze dell’educazione e della formazione, una laurea che alcune discussioni stanno mettendo in forse sminuendone il senso operativo e indebolendone il significato giuridico (da cui, vari miei articoli ed interviste sull’argomento). Avevo così pensato di dare il mio contributo sociale ritagliandomi un campo di attività adeguato alla mia preparazione teorica, alla mia esperienza personale ed ai miei interessi, ed ero entrata nella scuola italiana come educatrice “ad hoc”.
D-In che senso era entrata nella scuola italiana?
Da marzo a giugno dello scorso anno scolastico (2010/2011), grazie ad una convenzione firmata dall’associazione a cui mi appoggiavo (“HelpHandicap”) e dalla Dirigente scolastica (quest’anno andata in pensione e persona a me rimasta molto cara, alla quale sono grata per la fiducia, la comprensione ed il rispetto umano che mi ha sempre riservato) a cui ho chiesto di darmi modo di sperimentare la mia idea, ho offerto il mio lavoro nella veste di volontaria; al Comune lo sapevano tutti, e sapevano che il tutto era in vista della presentazione di un progetto e della richiesta di un finanziamento che mi permettesse di continuare ad operare in serenità. Durante il volontariato sono arrivata ad offrire fino a 40 ore settimanali per il recupero di situazioni di emergenza; mi sono resa conto che comunque 25 ore settimanali corrispondevano alla disponibilità minima necessaria per offrire alla scuola una presenza concreta ed efficace. Già come volontaria avevo diviso, sempre in accordo con la Preside, questo orario tra la mattina ed il pomeriggio, avviando un laboratorio di due ore di recupero ad personam pomeridiano e riservandolo di settimana in settimana a singoli ragazzi con lacune scolastiche più gravi, spezzandomi la giornata e rimanendo condizionata all’impegno preso con la scuola per tutto il resto dei miei movimenti. Mi aspettavo quindi intanto un finanziamento adeguato che mi permettesse di mantenere me e mio figlio in maniera dignitosamente indipendente; poi, avevo chiesto per lui una supervisione almeno tanto valida quanto quella che gli offrirei io rimanendo a casa, non potendo certamente smettere di disattendere le mie responsabilità nei suoi confronti per poter seguire i figli degli altri. Entrambe mie aspettative sono state mortificate, ed io ho dovuto rinunciare a realizzare il mio progetto, “Spazio aperto: diffondere cultura, creare appartenenza”, preferendo fare altro al mattino, in modo da continuare a stare a casa a scrivere e dare presenza a lui il pomeriggio.
D-Il progetto non è quindi stato riconosciuto utile?
R-La sua utilità è stata riconosciuta: ma il finanziamento è esiguo; associazioni che possano accogliere e seguire mio figlio adolescente senza superficialità ed offrendo stimoli adeguati all’età mentre io sono impegnata qui non ce ne sono; in più, il mio progetto è stato stravolto perdendo il significato che io gli avevo dato, senza che le modifiche mi siano state notificate.
D-Ci spieghi meglio.
Un punto cardine del mio progetto era offrire aiuto e presenza alle classi in modo da agevolare l’integrazione di ragazzini che danno problemi attentivi e comportamentali nel gruppo. Purtroppo, come accade anche a molti insegnanti di sostegno, non tutti gli insegnanti curriculari accettano di buon grado la presenza di un’altra persona in aula, percependola come un controllo, un’interferenza, un’invasione. Io non mi sono mai imposta, e ho rimesso sempre alla Dirigenza ed ai professori la scelta del mio orario, entro però una fascia di disponibilità decisa da me anche rispetto alle mie esigenze: se si lavora come volontaria, o sottopagata, si dovrebbe avere un riconoscimento maggiore di queste ultime. E’ successo invece che il mio progetto sia stato modificato tra l’altro a ritmi rallentati (siamo a dicembre: io mi aspettavo di iniziare il mio lavoro retribuito con l’inizio dell’anno scolastico…) senza che io fossi mai interpellata ed avvertita dei contenuti delle modifiche, che danno per scontata la mia disponibilità di orario e di impegno senza tener conto del compromesso che io avevo fatto: avrei accettato il sacrificio economico enorme, a patto di essere aiutata sia a continuare a sperimentare la mia idea, sia ad essere sostituita da qualcuno (docente, tutor, associazione) per fungere da riferimento a mio figlio durante il pomeriggio… Se il Comune paga poco (per 25 ore settimanali per il solo anno scolastico mi è stato offerto un finanziamento di 3.500 euro complessive, che equivaleva ad una paga di poco più di 4 euro orarie) per idee socialmente utili, non può aspettarsi che io però possa finanziare da sola le conseguenze della mia assenza in casa, a parte le spese: io ho dato un anno di tempo per poter discutere tutti sugli elementi in gioco e vedere di trovare la possibilità di un accordo. Mi ha ferita immensamente vedere che le mie esigenze personali e familiari non sono state minimamente considerate: infine, il mio errore è stato avere fiducia che ognuno fosse cosciente di tutta la posta che io stavo mettendo in gioco per il bene dei figli degli altri e della scuola. Sono stanca, amareggiata e profondamente appesantita da tutta questa esperienza, che è costata un’enorme perdita di tempo pagata da me e da mio figlio con l’assoluta mancanza di serenità.
D-Lei in sostanza cosa aveva pensato di offrire?
R- Il tipo di intervento che io proponevo avrebbe consentito all’operatore di concentrarsi sul singolo, individualizzare il percorso di recupero ed, eventualmente, orientare la famiglia a richiedere altri tipi di supporto senza paure o preconcetti. Il mio progetto doveva/poteva diventare un intervento articolato, complesso e dinamico: oltre alla presenza in classe e l’offerta di gruppi “a livello” fuori della classe durante l’orario scolastico e di laboratori di recupero didattico individuale il pomeriggio, avevo già cercato di fungere da mediatrice tra scuola, famiglia ed enti territoriali, poiché, trascorrendo varie ore con ogni ragazzino, ho spesso avuto modo di notare difficoltà per le quali il mio intervento non sarebbe bastato; con la collaborazione di alcune insegnanti della scuola, si era pensato perciò di avviare uno sportello pedagogico (non d’ascolto, dal momento che l’esiguità del finanziamento non ci avrebbe permesso la presenza di uno psicologo all’interno della scuola) che fosse un riferimento attivo e presente nella scuola, per ragazzi e famiglie, collegato ad una rete di operatori esterni (psicologo, logopedista, ASL eccetera) che speravo si ampliasse con il tempo e che supportasse il nostro lavoro svolto all’interno dell’istituto in una sinergia costruttiva ed aperta ad una concezione della scuola come parte dell’organismo sociale. C’era inoltre bisogno di altri riferimenti: per esempio istruttori sportivi e delle attività del tempo libero, centri di aggregazione davvero possibilitati a seguire i ragazzi in modo mirato ed in sinergia con scuola e famiglia; laboratori artigianali o pratici su cui dirottare i ragazzi che, annoiandosi, rischiano di fare esperienze negative in piazza in un’età veramente delicata; pensavo di chiedere il coinvolgimento, con la supervisione di educatori ed operatori sociali, di persone pensionate… per il fondamentale problema dei compiti pomeridiani, mancano altri educatori, che avrei potuto pensare di formare io stessa, o almeno ragazzi più grandi che fungano da tutor (avendone in cambio riconoscimento concreto o sotto forma di crediti scolastici o di “banca del tempo”, ovvero in cambio di qualcos’altro): l’idea è già stata applicata in altri Comuni italiani e non è originale (la applicavano già i Gesuiti), ma potrebbe essere di utilità sociale fondamentale. Lascio tutto questo alla riflessione altrui; a me spiace essere stata trattata così.
D-La novità della sua proposta era quindi rappresentata dal fatto che lei si proponeva di partire direttamente dal “ragazzo in classe”.
R- Non credo che il problema sia dimostrare qui di avere o non avere avuto un’idea originale: le idee vengono mettendo insieme elementi di idee già avute da altri vissuti anche in un passato storicamente lontano da noi. Francamente non so se altri istituti scolastici in Italia abbiano avviato forme simili o alternative di concreto intervento. Comunque, una volta che le idee si hanno, bisogna anche dimostrare di saperle mettere in pratica: ed io, ancora prima di richiedere il finanziamento, avevo cercato di mettere sotto il naso di tutti il contenuto operativo e duttile del mio progetto agendo da volontaria. Se è da novembre scorso che mi sono attivata chiedendo di essere ricevuta dal Sindaco, parlandone con il Comune e facedomi il giro dei Dirigenti di tutte le scuole primarie e medie della zona per avvertirli di volerli fare invitare dal Sindaco a parlare insieme davanti a lui dei bambini/ragazzini con problemi attentivi a rischio farmaci, decidendo poi di iniziare a marzo intanto come volontaria, posso ben dire che è un anno che ho aspettato invano questa convocazione: non sono mai stata invitata a parlare da alcuna parte, né nel mio luogo di residenza qualcuno sa davvero che nella “mia” scuola mi era stato dato questo spazio per una tale iniziativa. Un’iniziativa che nasceva dalla sentita necessità di voler partire “dal campo”, ossia direttamente dal ragazzo e dal suo comportamento in classe – in cui la ASL troppo spesso non entra – cercando di creargli attorno una rete che lo aiuti attivamente nel suo recupero didattico e, perciò, nella sua integrazione sociale in quel contesto. Io credo e ho sempre creduto negli approcci che partono “dal basso”, dall’esperienza reale; anche i miei articoli nascono dal senso profondo che io do alla professione di educatore/rice: dare informazioni, indicazioni e suggerimenti concreti. Tutto il mio lavoro, lo ho già scritto altrove, si potrebbe definire come tentativo di risposta di soluzione concreta al rischio che minori dall’intelligenza vivace ma poco portata ai ritmi scolastici possano essere o abbandonati a se stessi o, peggio, sedati con psicofarmaci. Comunque, le ripeto, il tutto si è risolto per me con un nulla di fatto: sto attendendo che mio figlio concluda le Medie inferiori, poi ho deciso di tornare all’estero: cinque anni in Italia sono stati per me dolorosamente mortificanti come persona e come professionista. Più di questo non posso né dare né fare: la vita è una anche per me.
D-Cosa le è mancato di più?
A parte il riconoscimento ufficiale che compensasse perlomeno la mancanza di un adeguato riconoscimento economico, mi è sicuramente mancata una piattaforma di collegamento attraverso la quale potermi incontrare con altri operatori di diversa formazione semmai, ma tutti impegnati al fine di dare una mano reale a questi ragazzi, ai loro insegnanti, alle classi ed alle loro famiglie: un confronto, uno scambio che dessero respiro al mio tentativo e gli facessero guadagnare il rispetto che meritava – se lo meritava, s’intende. Ecco, la soddisfazione di vedere questo: se ciò a cui ho dato valore qualcosa infine meritava. Mi sento frustrata come davanti ad un fallimento, ben sapendo che non ha fallito l’idea in sé, ma il mio non avere visibilità, potere economico né politico: se avessi avuto appoggi o fossi stata la figlia del Sindaco che mi ha promesso un invito mai poi ricevuto, il tutto avrebbe avuto una diversa risonanza e ricezione. Io sono stata invece esposta all’umiliazione del non avere nulla con cui compensare e giustificare il non avere materiale. Mi sono perciò sentita estremamente isolata e ho accumulato la frustrazione di chi riconosce al suo lavoro un carattere di improvvisazione pionieristica. Non posso investire la mia energia in un Paese che riconosce tanto poco a persone come me: che si cerchi sul Web se davvero non avevo e non ho nulla da dire e niente di nuovo da proporre. Io sono tornata in Italia per mio figlio, l’unica persona al mondo per cui questo sacrificio doveva essere fatto. Non vedo l’ora di andarmene via di nuovo.